«Solo quello che ho detto. Forse da piccolo Paul era a posto, ma anche allora tu non lo conoscevi bene. Dopo tutto qui ci venivi solo d'estate.»

«Al diavolo questa storia. Voglio sapere che cosa ha detto Bertilsson su di me.»

«Be', penso che volesse dire semplicemente che alcune persone...»

«Cioè il sottoscritto.»

«Che alcune persone vivono al di fuori dei valori normali, e che questo può essere pericoloso quando invece, nei momenti brutti, come quelli che stiamo vivendo, tutti dovrebbero essere uniti.»

«È più colpevole lui di me per questo. E adesso vorrei che mi spiegassi qual crimine avrebbe mai commesso Paul Kant.»

Con mia grande sorpresa, Duane arrossì e distolse gli occhi. «Be', non ha commesso nessun crimine. Crimine non è la parola esatta. E soltanto che è diverso da tutti noi altri.»

«Mi sembra di capire che anche lui vive al di fuori dei valori normali, allora. Benissimo. Farò proprio in modo di rintracciarlo.»

Ci fissammo l'un l'altro per alcuni istanti senza parlare. Duane sembrava versare in una grave incertezza di natura morale. Era chiaro che si era pentito amaramente di aver tirato in ballo la questione di Bertilsson e di Paul Kant. Mi ricordai dell'idea che mi era venuta in mente al Freebo's bar, subito dopo aver stupidamente menzionato la Casa dei Sogni. «Possiamo cambiare argomento?»

«Come no.» Mi sembrò sollevato. «Ti andrebbe di bere una birra?»

«No, grazie, non adesso. Senti, Duane, che ne hai fatto di tutta la roba della nonna? Intendo dire delle vecchie foto e del mobilio.»

«Aspetta, fammi pensare. Ho messo i mobili giù nella cantina interrata. Non mi sembrava giusto venderli o buttarli via. Può darsi che un domani alcune cose acquistino valore. La maggior parte delle foto, invece, le ho messe in un baule nella vecchia camera da letto.» Era la camera da letto del pian terreno, quella dove avevano dormito i miei nonni, fino alla morte del nonno.

«Perfetto, Duane. Non sorprenderti qualsiasi cosa tu senta.»

 

Dalla Deposizione di Duane Updhal:

17 luglio

Ecco quello che mi ha detto poco prima che iniziasse quella strana faccenda. Non sorprenderti, o qualcosa del genere. Non sorprenderti qualunque cosa accada. Dopodiché è corso a razzo verso la vecchia casa. Era eccitato fuori misura. Era anche ubriaco; a lui che fosse domenica mattina proprio non interessava. Si sentiva dall'alito. Dopo un po' venni a sapere da mia figlia che era stato da Freebo's, giù sulla Main. E sapete cosa? C'era stato insieme a Zack, a bere come se fosse sabato sera. Piuttosto strano, considerando quello che ha cercato di fare a Zack dopo. Magari l'aveva incontrato apposta per sondarlo, per metterlo alla prova. Chi lo sa? Questo, comunque è quello che penso io. Io penso anche che continuasse a pensare a Paul Kant perché aveva intenzione di usarlo come ha cercato di usare Zack. Però non so. Non ci capisco niente della storia di Paul Kant. Credo che nessuno di noi potrà mai sapere quello che è successo veramente.

 

Il baule lo trovai subito. Anzi, l'avevo già localizzato mentalmente nel momento in cui Duane aveva nominato la vecchia camera dei nonni. Più che di un baule vero e proprio, si trattava di un vecchio forziere norvegese portato in America dal padre di Einar Updahl. Gli era servito per trasportare nel nuovo continente tutto quello che possedeva, che doveva essere ben poca cosa, data la modesta capienza del suddetto cofano, a malapena sufficiente a contenere quattro macchine da scrivere elettriche. Era un oggetto bellissimo, tutto di legno intagliato a mano e cesellato a formare foglie e volute. Sfortunatamente, però, era anche chiuso da un lucchetto e io ero troppo impaziente per ritornare da Duane a chiedergli dove ne avesse ficcato la chiave. Così, sbattendo la porta, raggiunsi la veranda e, dopo averla percorsa tutta, aprii le vecchie porte scorrevoli che immettevano nel garage. L'aria, resa rovente dal sole, sapeva di cimitero. Quando è umida, la terra ha sempre odore di marcio e di scarafaggi. Appesi al muro, c'erano i vecchi attrezzi del nonno, proprio come ricordavo: le seghe arrugginite, che un tempo servivano per tagliare la legna; tre taniche di benzina da dieci galloni; martelli e asce che pendevano ordinatamente dai chiodi piantati nel muro. Presi un piede di porco e rientrai in casa. Il becco si incastrava perfettamente nella fessura fra il coperchio e il corpo del baule; feci forza sulla leva e sentii il legno cedere. Al secondo tentativo salii sul braccio del piede di porco con tutto il mio peso e, con uno schianto, il legno sopra il lucchetto si sfasciò. Caddi in ginocchio, tenendomi stretta la mano sinistra che pulsava terribilmente. A forza di pugni riuscii poi ad alzare il coperchio del forziere; all'interno trovai un cumulo disordinato di fotografie, sfuse e incorniciate, fra le quali rovistai alcuni istanti senza successo. Dopo essermi sorbito diverse versioni della faccia ingrugnita di Duane, svariate istantanee della mia testa riccioluta e innumerevoli primi piani di apparecchi ortodontici, con i quali i nostri genitori cercavano di correggere in noi il sorriso cavallino degli Updhal, decisi con impazienza di capovolgere il baule e di rovesciarne il contenuto sul tappeto fatto all'uncinetto.

Mi fissò da un metro e mezzo di distanza, auto-isolatasi dalle altre fotografie: qualcuno l'aveva tolta dalla cornice e adesso aveva le estremità leggermente arrotolate. Ma era lì, con noi due immortalati dallo zio Gilbert come dovevamo apparire a tutti, in quell'estate del 1955: più uniti di due gocce di sangue che scorrono nella stessa vena, non più bambini ma intrappolati come larve nel meraviglioso bozzolo ambrato dell'adolescenza; lì, mano nella mano, sorridenti, mentre le nostre anime fluivano l'una nell'altra.

Se non fossi già stato in ginocchio, probabilmente le gambe non mi avrebbero retto: la forza che esprimeva quel viso vicino al mio mi aveva fatto morire il respiro in gola. Era come se qualcuno mi avesse assestato un pugno in pieno stomaco. Perché se, in quel lontano giugno del 1955, impacciati compravamo dall'ignoranza e dal nostro amore, eravamo entrambi bellissimi, lei lo era incomparabilmente di più. Lei oscurava il mio viso intelligente di giovane ladruncolo: era come se si trovasse addirittura su un altro pianeta, dove l'anima diventa incandescente nella carne. Era pervenuta al punto massimo dell'essere, insieme corpo e anima. Quello squillo di tromba vivo dello spirito, quella luce che emanava dalla sua persona mi mettevano completamente in ombra. Mi sembrò di levitare, trasportato dalle correnti della magia e dalla complessità dello spirito che leggevo in quel viso che era il suo viso. Come se stessi levitando dalle ginocchia, dalle ginocchia che adesso mi dolevano per il contatto ruvido con la lana del tappeto!

Quel viso che era il suo viso. Attraverso la telepatia eravamo rimasti in comunicazione per tutta la vita...

Fu in quel momento che capii che dal giorno del nostro ultimo incontro, l'unico scopo della mia vita era stato quello di cercarla e di ritrovarla. Affranta dal dolore, sua madre, si era ritirata a San Francisco; quando rubai la macchina e la distrussi andando a sbattere contro il muro di contenimento della collina, a non più di venti metri da dove adesso sorge il termometro rosso che sovrasta il panorama italiano, i miei genitori mi avevano sbattuto in un collegio-prigione di Miami. Lei si trovava in un altro stato, in un'altra condizione: noi eravamo divisi, ma io avevo la certezza che non saremmo rimasti tali per sempre.

 

Restai a lungo assorto nei miei pensieri. Poi mi adagiai sul mucchio crepitante delle foto. Rivoli di sudore mi colarono dai capelli sulle tempie, mentre la carta ruvida delle istantanee e i lunghi frammenti di legno norvegese mi pungevano la nuca. Sapevo che l'avrei rivista, sapevo che sarebbe ritornata. Era quello il motivo per cui ero lì, nella vecchia fattoria della nonna: il libro era solo un pretesto. Non avevo mai avuto intenzione di finire la mia dissertazione: lo spirito non me lo permetteva. Da adesso fino al giorno in cui sarebbe venuta, io mi sarei preparato per il suo arrivo. Anche la lettera anonima faceva parte della preparazione, della necessaria prova dello spirito.

Stavo raggiungendo lo stadio finale della trasformazione che era iniziata nel momento in cui mi ero ferito la mano contro il cofano della VW e mi ero sentito invadere, inondare da quel senso di libertà, che era la sua libertà.

La realtà non era unica, ma irrompeva nel reale apparente con la forza di un pugno. Era questa consapevolezza che palpitava nei suoi occhi. La realtà non è nient'altro che un agglomerato di molecole tenute assieme dalla tensione, una mera apparenza. Nel suo viso non c'era forse la stessa espressione di quando aveva sei anni e quella che avrebbe avuto a cinquanta? Mentre stavo sdraiato sul tappeto, in mezzo alla confusione delle foto e delle cornici di legno rotte, il soffitto bianco sopra la mia testa si trasformò come per incanto in un cielo immacolato. Pensai fugacemente a Zack e sorrisi. Innocuo. Un innocuo svitato. Quando io perdevo la normale coscienza non sognavo di essere immerso in un orrore remoto e blu, ma sognavo Alison che nuotava verso di me.

Quell'immagine rimbalzò nella mia mente. Faceva tutto parte di quella ondata di sensazioni: la ferita alla mano, il trascurabile fastidio alla nuca, perfino le ciance di Zack e il furto, con successiva distruzione, dell'orribile libro di Maccabee. Ne avrei avuto la prova il ventuno di luglio. Non esistevano cose impossibili. Mi addormentai. (Persi coscienza.)

 

E mi risvegliai pieno di propositi. Quando avevo detto a Duane di non sorprendersi qualunque cosa sentisse, meditavo un progetto di cui solo adesso capivo l'assoluta necessità. Dovevo dare inizio ai preparativi. Avrei avuto a disposizione circa tre settimane, un periodo di tempo più che sufficiente per predisporre ogni cosa per il giorno fatidico.

Cominciai afferrando la prima cornice che mi capitò sottomano e strappando letteralmente la fotografia che conteneva, per inserirvi al suo posto quella in cui Alison ed io eravamo ritratti insieme. Quindi andai in soggiorno e appesi la cornice nello spazio che prima ospitava la fotografia di Alison che avevo portato nel mio studio.

Poi mi guardai attorno. Gran parte di quel mobilio doveva sparire. Avevo intenzione di creare una sorta di ambiente-Alison: volevo cercare di far rivivere, per quanto era possibile e con l'aggiunta di qualche abbellimento, la stanza di vent'anni prima. I mobili da ufficio di Duane sarebbero finiti nella cantina interrata, dove adesso si trovavano quelli della nonna, che avrebbero ripreso il loro posto originario. Mi chiesi dubbioso se sarei riuscito a trascinare da solo giù per le scale i pezzi più pesanti: ma non avevo altra scelta, quindi in un modo o nell'altro me la sarei cavata.

Le porte che conducevano alla cantina interrata si trovavano alla fine della veranda ed erano infisse nel terreno, in lieve pendenza: per aprirle bastava tirare verso l'alto i battenti che poi ricadevano di lato; si tratta di un tipo di costruzione ormai desueta, ma frequente un tempo nelle campagne, e io ero pressoché certo che, benché modernizzata con l'aggiunta di una scala che la collegava con il corpo della casa, in origine la cantina di Duane fosse stata anch'essa concepita in quel modo. Con un notevole sforzo, che per poco non mi costò uno stiramento dei muscoli dorsali, riuscii ad aprire uno dei due battenti che il tempo aveva cementato insieme.

La scala, fatta di terra, sembrava piuttosto insidiosa: era molto ripida e gli scalini erano per lo più semi-crollati: in alcuni punti era chiaro che il danno era di antica data, mentre in altri era evidente che le sbrecciature erano state provocate da Duane quando aveva trascinato giù i mobili. Appoggiai cautamente un piede sul primo scalino per vedere se reggeva il mio peso: il contatto con il terreno compatto ed elastico mi rassicurò. Per un po' procedetti con circospezione, poi, con una certa dose di incoscienza, presi a scendere la scala senza guardare, fino a quando, all'improvviso, uno scalino cedette ed io scivolai per alcuni metri in mezzo al terriccio che si sgretolava. Quando riuscii a fermarmi, ancorai saldamente i piedi su un solido gradino, feci forza con le braccia contro i muri e spinsi con il corpo e con le gambe fino a quando, con un cigolio lamentoso, anche il secondo battente si aprì. Adesso la luce del sole illuminava quasi tutta la cantina, che, come il garage, sapeva di cimitero. I vecchi mobili della nonna giacevano accatastati sul terreno umido come ossa per lo stufato: erano stupendi, proprio come li ricordavo. Con grande fatica, cominciai a trascinarli fuori da quel buco buio e ad adagiarli sul prato inondato dal sole.

 

Continuai a lavorare fino a quando sentii le spalle e le gambe dolermi. Nella cantina c'erano più mobili di quanti immaginassi, e tutti assolutamente necessari: perfino i poggiapiedi, i tavolinetti, le lampade e le librerie. Ad un certo punto ero così stanco che dovetti fare una sosta; ne approfittai per prepararmi un panino con le provviste che avevo acquistato il sabato. Dopo averlo trangugiato in quattro morsi, mi armai di spazzola e detersivo e lavai tutto quello che avevo ammucchiato sul prato. Fatto questo, ridiscesi in cantina e trascinai fuori gli ultimi pezzi dell'arredamento. Ricordavo con chiarezza sorprendente il posto in cui era collocato ogni singolo oggetto, come se la mia mente conservasse un'immagine fotografica del soggiorno che mi apprestavo a far rivivere; il soggiorno in cui lei era stata tante volte e che le sue mani avevano toccato.

Quando il sole cominciò a tramontare, avevo già lavato e allineato tutti i mobili sul prato. Il tessuto del sofà e delle sedie era consunto, ma il legno era pulito e lucido. Anche lì sul prato, nella luce che lentamente moriva, quei mobili sembravano affermare magicamente il proprio diritto a riconquistare il loro posto originario, quel diritto che contraddistingue tutte le cose fatte e usate con cura. Guardando quei meravigliosi oggetti logorati dal tempo, fui sul punto di piangere: ciascuno di loro custodiva gelosamente il passato ed evocava tutta la storia della mia famiglia dal giorno in cui si era trapiantata in America. Come loro anch'essa era solida e giusta.

I mobili di Duane, invece, mi dettero l'impressione di essere nudi e stupidi, quando li trascinai sul prato: avevano perfino minore spessore di quanto avessi percepito la prima volta che li avevo visti. Avevano un rapporto negativo con lo spirito.

Commisi l'errore di trascinare per prime in cantina le cose più leggere: i quadri, le lampade e le sedie. Sotto una lampada trovai due biglietti da un dollaro accuratamente piegati; in condizioni diverse avrei apprezzato il gesto di Tuta, ma in quel momento vidi nelle due banconote soltanto la prova del mio pessimo comportamento. Quella circostanza mi mise di cattivo umore e fu in quello stato che completai il trasporto della prima parte del mobilio. Alla fine, quando ormai il cielo imbruniva ed io ero esausto, erano rimasti sul prato i due grandi divani e le poltrone. La fioca luce della veranda e quella ancora pallida della luna, riuscivano ad illuminare solo parzialmente gli scalini di terra che, in molti punti, erano così rovinati da formare un unico piano inclinato pieno di buche. Presi la prima poltrona con le braccia tremanti e, procedendo con estrema cautela riuscii a portarla felicemente a destinazione. Ma quando provai a fare altrettanto con la seconda, persi l'equilibrio e rotolai con la poltrona sulla terra umida.

Per completare quella acrobazia alla Buster Keaton, sarei dovuto atterrare sul pavimento sudicio, comodamente seduto sul cuscino, e invece mi ritrovai mezzo sopra e mezzo sotto l'ingombrante mobile, con un dolore lancinante che si irradiava dalla gamba sinistra. Comunque, non mi sembrava di aver niente di rotto, a differenza di una delle gambe della poltrona, che dondolava dalla stoffa strappata come un dente morto. Imprecando, la staccai e la gettai in un angolo della cantina. Poi riservai più o meno lo stesso trattamento alla seconda poltrona.

Quando risalii non avevo più alcuna voglia di portare giù i divani: così trascinai il primo fino all'imboccatura della cantina, lo direzionai in modo che non urtasse contro le pareti e lo spinsi di sotto. Dopo alcuni secondi, il mobile si schiantò sul pavimento, con un grande frastuono. Grugnii di soddisfazione. Stavo per avviarmi verso il secondo divano, quando mi accorsi che qualcuno, armato di torcia elettrica, stava venendo nella mia direzione.

«Maledizione, Miles!» urlò Duane puntandomi la luce in faccia. Un attimo dopo raggiunse, l'area illuminata dalla lampada della veranda.

«Non avevi mica bisogno della torcia per vedermi.»

«No, anche in una notte buia avrei capito che eri tu.» Spense la torcia e fece alcuni passi verso di me. Aveva il viso stravolto dalla rabbia. «Maledizione! Come vorrei che tu non fossi mai tornato qui! Ma che cosa diavolo ti sei messo in testa? Fottuto bastardo che non sei altro.»

«Senti, lo so che può sembrare strano, ma ...» Ebbi l'impressione che il viso di Duane si stesse gonfiando. Indubbiamente, in quanto a manifestazioni di rabbia, io, rispetto a lui, ero un modesto dilettante.

«Ah, è così che la pensi, eh? Può sembrare strano, dici tu? Adesso apri bene le orecchie e dimmi: perché se proprio dovevi tirare in ballo la storia di quella dannata casa, lo dovevi fare con mia figlia?»

Ero troppo sbalordito per rispondere.

Lui mi fissò per un altro istante, poi girò su se stesso e sbatté la testa contro uno dei supporti della veranda.

Avrei dovuto cominciare a preoccuparmi allora... di fronte a quella speciale dispensa...

«Non mi rispondi Miles? Merda! Nessuno più si ricordava di quella casa e fra un po' di tempo sarebbe caduta in pezzi per suo conto. Alison non sarebbe mai venuta a saperne niente. E invece no: arrivi tu e le vai a spifferare che quella era la mia "casa dei sogni", vero? Così lei poteva interrogare il primo ubriaco di Arden che incontrava per la strada e scoprire tutta la verità. Soddisfatto, adesso? Immagino che tu l'abbia fatto perché volevi che lei ridesse di me, proprio come facevate sempre tu e tua cugina!»

«È stato un errore, Duane. Mi dispiace. Pensavo che lei sapesse già tutto.»

«Stronzate, Miles, tutte stronzate. La mia casa dei sogni, non è così che l'hai chiamata? Volevi che lei ridesse di me, volevi umiliarmi. Dovrei riempirti di pugni.»

«Forse dovresti farlo davvero, Duane. Ma se non ne hai l'intenzione ti prego di ascoltarmi. Non l'ho fatto apposta, te lo giuro. Pensavo che lo sapessero tutti.»

«Sì, e che cosa pensi, che questo mi faccia sentire meglio? Dovrei farti a pezzi!»

«Se vuoi farlo, accomodati pure. Ma io mi sto scusando.»

«Non ci sono scuse per quello che hai fatto, Miles. Io voglio che tu stia alla larga da mia figlia, hai capito? Stai lontano da lei, Miles.»

Forse non si sarebbe nemmeno accorto dei mobili se, nella foga della sua invettiva non avesse sbattuto la mano contro il divano. La rabbia lasciò il posto ad un'espressione di stupore genuino.

«Ma che cosa diavolo stai facendo?» Duane era furente.

«Sto rimettendo i vecchi mobili» dissi io, sentendomi mancare il cuore e consapevole, all'improvviso, dell'assurdità del mio progetto. «Quando me ne sarò andato, potrai cambiare tutto di nuovo. Ma devo farlo, Duane.»

 

CAPITOLO QUINTO

 

Considerando che, per tutta la vita, sono stato condannato a compiere le fatiche di Sisifo e che, a causa del titanico sforzo fisico di quel pomeriggio, i muscoli mi tremavano e mi dolevano come mai mi era capitato prima, non è strano che proprio quella notte io abbia sognato di spingere mia nonna, inferma in una carrozzella, su per una salita, attraverso un territorio sconosciuto. Eravamo circondati da una luce intensa. Mia nonna era eccezionalmente pesante ed io ero preda di un terrore infinito. L'odore di legna bruciata mi feriva le narici. Avevo commesso un omicidio, una rapina o qualche altro grave crimine e il cerchio si stava lentamente stringendo intorno a me. I miei inseguitori erano forze che, per il momento, restavano indefinite, ma che sapevano di me e che, prima o poi, mi avrebbero acciuffato.

— Va a parlare con Rinn, disse mia nonna.

— Parla a Rinn, ripeté.

E poi di nuovo — Parla a Rinn.

Ad un certo punto smisi di spingere la carrozzella: i miei muscoli non riuscivano più a reggere quello sforzo. Mi sembrava di camminare da ore. Appoggiai la mano sulla testa di mia nonna e mi chinai. — Nonna, — dissi — sono stanco. Ho bisogno di aiuto. Ho paura. L'odore di legna bruciata mi investì in pieno viso, insinuandosi in ogni recesso del mio cervello.

Quando lei si voltò a guardarmi, il suo viso era scuro e putrefatto.

Seguirono tre applausi, distinti e cinici.

Mi svegliai di soprassalto urlando. Provate a pensare: un uomo solo in una camera bianca che urla nel sonno! Un uomo solo, perseguitato soltanto da se stesso. Mi sentivo le membra pesanti, incapaci di muoversi; avevo la bocca in fiamme e la sensazione di avere la testa piena di stracci unti: conseguenza dell'abuso di una sostanza magica. Misi lentamente le gambe giù dal letto e rimasi alcuni minuti seduto sulla sponda, con la testa china fra le mani; con i polpastrelli cercai il punto in cui un tempo portavo la scriminatura: adesso al posto dei miei soffici capelli c'era soltanto la cute oleosa. Urtai con i piedi la bottiglia; mi arrischiai a darle un'occhiata: era vuota per tre quarti. Ero circondato da tracce di vita mortale. Mi alzai in piedi; avevo le gambe pressoché insensibili. Ad eccezione degli stivali, indossavo ancora i vestiti della domenica, tutti imbrattati di sporcizia e di terra seccata. Sentivo in bocca il sapore delle mie grida.

Riuscii a scendere le scale solo puntellandomi con le mani contro il muro.

Sulle prime, la vista del mobilio mi lasciò di stucco. Non era possibile: dovevo essere capitato nel posto sbagliato. Poi mi ritornò alla mente la scenata della sera precedente: Duane e la sua torcia piantata negli occhi. Mi abbandonai pesantemente sul vecchio sofà e, per un istante, temetti di sprofondare, attraverso il sedile, in un'altra dimensione. Il giorno prima avevo detto a me stesso di ricordare con precisione la disposizione dei vecchi mobili della nonna, ma adesso mi rendevo conto che era stata soltanto un'illusione; questo significava che avrei dovuto provare e riprovare finché ogni cosa avrebbe trovato la propria giusta collocazione e la stanza avrebbe riacquistato la fisionomia di un tempo, la sua vera identità.

Il bagno. Acqua calda. Acqua da bere. Mi alzai e, dribblando fra il mobilio, raggiunsi la cucina.

Con mia grande sorpresa vi trovai Alison Udphal, appoggiata alla credenza e intenta a masticare qualcosa. Indossava una T-shirt (gialla) e un paio di jeans (marroni). Era scalza e, per un attimo, io percepii distintamente il freddo del pavimento, come se raggiungesse la mia carne attraverso le suole degli stivali.

«Mi dispiace, ma è troppo presto per la compagnia» le dissi senza neppure salutarla.

Lei finì di masticare e deglutì. «Dovevo vederti.» Aveva gli occhi dilatati.

Io le voltai le spalle, consapevole della presenza di una complicazione che non ero in grado di gestire. Sul tavolo c'era un disgustoso piatto di uova strapazzate congelate e di pancetta accartocciata.

«Credo che te l'abbia preparato la signora Sunderson. Ha dato un'occhiata nell'altra stanza e ha detto che l'avrebbe pulita non appena tu avessi deciso come sistemare i mobili. Ha detto anche che hai rotto un vecchio forziere norvegese; a quanto pare doveva essere un oggetto antico e di grande valore. Ha detto che anche la sua famiglia ne possiede uno e che un tizio di Minneapolis che l'ha visto, l'ha valutato duecento dollari.»

«Per piacere, Alison!» Mi azzardai a darle un'altra occhiata. Sotto la maglietta gialla i suoi grandi seni si alzavano e si abbassavano assecondando il ritmo del respiro. Sembravano due mine subacquee. I suoi piedi, al contrario, erano sorprendentemente piccoli, bianchi e paffuti: bellissimi. «Sono troppo distrutto per mostrarmi in pubblico.»

«Sono venuta per due motivi. Il primo è che mi sono resa conto di essere stata una stupida a parlare a papà di quella casa. È saltato per aria nel vero senso della parola. Zack mi aveva detto di starmene zitta, ma io ho voluto fare di testa mia. È stata un'idiozia, adesso l'ho capito anch'io. Ma a te che cosa è successo? Ti sei sbronzato? E perché vuoi rimettere in salotto quei vecchi mobili?» Parlava molto velocemente.

«Sto lavorando ad un'idea.»

Quella risposta la lasciò perplessa. Mi sedetti al tavolo e allontanai il piatto con le uova prima di sentirne l'odore.

«Non devi preoccuparti per papà. È davvero fuori di sé dalla rabbia, ma non sa che sono qui. È andato nei campi che ha appena comprato, il che significa che starà via per un po'. In ogni caso sono molte le cose che faccio a sua insaputa.»

Ad un tratto, mi accorsi che Alison era stranamente loquace, troppo loquace.

Il telefono squillò. «Merda» esclamai e, a fatica, mi alzai in piedi. Sollevai il ricevitore e attesi che dalla parte opposta del filo qualcuno parlasse. Silenzio. «Chi è?» Nessuna risposta. «Pronto! Prontoo!» Allora, mi sembrò di udire un suono indistinto, simile ad un battito d'ali o al fruscio di un ventaglio. La stanza era fredda. Riagganciai bruscamente.

«Non hanno detto niente? È strano. Zack sostiene che i telefoni possono imprigionarti nelle onde di energia provenienti dallo spazio; dice anche che se in tutto il mondo le persone sollevassero la cornetta esattamente nello stesso istante, dallo spazio entrerebbero nelle nostre case pure onde di energia. Un'altra delle sue teorie è questa: che se tutti facessimo contemporaneamente lo stesso numero, daremmo luogo ad una specie di esplosione energetica. Lui sostiene che l'elettronica e o congegni come i telefoni ci preparano per l'avvento dell'apocalisse.» Ormai non avevo dubbi: Zack aveva la stessa intelligenza di una bambola di pezza.

«Io ho bisogno di bere un bicchier d'acqua e di fare un bagno. Chi ha orecchie per intendere...» Mi avvicinai all'acquaio e rimasi in piedi accanto a lei a guardare il bicchiere che si riempiva di acqua fredda. Ne bevvi due o tre grandi sorsate ed ebbi l'impressione di sentirla spumeggiare nelle vene attraverso il petto. Ne bevvi un secondo bicchiere, ma non sperimentai più quella sensazione.

«Ti capita mai di ricevere telefonate simili nel cuore della notte?»

«No. Anche perché di notte non rispondo.»

«E strano. Sembra che tu non vada a genio quasi a nessuno da queste parti. Parlano tutti di te. Ti è forse successo qualcosa di brutto in passato? Non può che essere così... qualcosa di cui sono tutti a conoscenza.»

«Non ho idea di che cosa tu stia parlando. Ho avuto una vita felicissima fin dalla più tenera età. E adesso vado a fare il bagno.»

«Papà lo sa di che cosa si tratta, vero? Ho sentito che ne parlava. Be', per la verità non ha detto niente di preciso: vi ha fatto solo un rapido accenno, al telefono, un paio di sere fa. Credo che stesse parlando con il padre di Zack.»

«Fa effetto pensare che Zack abbia dei genitori» osservai. «Lo si direbbe più un tipo partorito dalla mente di Zeus. E adesso, fuori dai piedi, per piacere.»

Ma Alison non aveva la benché minima intenzione di muoversi. L'acqua aveva risvegliato un dolore acuto e fluttuante proprio dietro la mia fronte. Ad un tratto avvertii la sua tensione, che adesso era più forte dei postumi della mia sbornia. Alison incrociò le braccia sullo stomaco, con il chiaro intento di comprimere i seni. Sentii il suo odore di sangue. «Ho detto che ero venuta qui per due motivi. Voglio che tu faccia l'amore con me.»

«Gesù!» esclamai.

«Papà sarà di ritorno solo fra due ore. In ogni caso, non ci vuole molto» precisò rivelandomi più di quanto volessi sapere sulle abitudini sessuali di Zack.

«Che cosa credi che ne penserebbe Zack?»

«L'idea è stata sua, ha detto che così avrei imparato la disciplina.»

«Alison» le dissi esasperato. «Adesso io vado in bagno. Di questo parleremo più tardi.»

«Nella vasca c'è posto per tutti e due.»

La sua voce era sommessa, l'espressione del suo viso accorata. Ero terribilmente consapevole delle sue cosce strette dai blue jeans, delle sue mammelle grandi e morbide e dei suoi piedi paffuti e aggraziati sul pavimento gelido della cucina. Se in quel momento Zack fosse stato lì gli avrei sparato.

Con dolcezza le dissi: «Non penso che Zack si comporti onestamente con te.» Ma prima che potessi aggiungere una sola parola, Alison aveva girato i tacchi e si era precipitata fuori sbattendo la porta.

 

Dopo aver fatto il bagno mi rammentai della decisione che avevo preso al termine della mia sgradevole chiacchierata con Duane, domenica mattina. Mi avvicinai al telefono e consultai l'elenco degli abbonati, lanciando un'occhiata fugace ai due bambini della copertina, sospesi sopra l'acqua fredda del fiume. Paul Kant abitava ad Arden, in Madison Street, ma quando mi rispose la sua voce era così bassa e lontana che sembrava stesse parlando dal Tibet.

«Paul, sono Miles Teagarden. Sono arrivato la settimana scorsa e un paio di giorni fa sono venuto a trovarti, ma tu non c'eri.»

«Sì, le signore me l'hanno riferito. Avevo sentito dire che eri in città.»

«Non ti nascondo che sono rimasto piuttosto sorpreso quando Duane mi ha detto che abiti ad Arden. Ero convinto che te ne fossi andato anni fa.»

«E invece le cose non sono andate così...»

«Vedi ancora Orso Polare ogni tanto?»

Paul proruppe in una risata amara. «Il meno possibile. Senti, Miles, forse sarebbe meglio... forse sarebbe meglio se tu non cercassi più di vedermi. È per il tuo bene, Miles. E forse anche per il mio.»

«Ma che cosa significa? Sei nei guai?»

«Non so proprio che cosa risponderti.» Aveva la voce preoccupata.

«Ma hai bisogno di aiuto? Paul, non riesco davvero a capire che cosa stia succedendo.»

«Siamo noi due, Miles. Ti prego, non peggiorare la situazione. Lo dico per il tuo bene.»

«Cristo, ma che cos'è tutto questo mistero? Non eravamo amici una volta?» Anche attraverso il telefono riuscii a percepire un'emozione che, a poco a poco, riconobbi: era paura. «Se hai bisogno di aiuto, io sono disposto a darti una mano. Basta che tu me lo dica. Avresti dovuto andartene da qui anni fa. Questo non è il posto per te. Senti, Paul. Io verrò ad Arden questo pomeriggio e mi piacerebbe venire a trovarti al negozio.»

«Non lavoro più da Zumgo's.»

«Questa è una buona notizia.» Non so perché ma pensai alla regina guerriera.

«Mi hanno licenziato.» La sua voce era piatta e cupa.

«Questo significa che siamo tutti e due senza lavoro. Comunque, ritengo che sia un onore venire licenziati da un mausoleo come Zumgo's. Senti, Paul, io non mi voglio imporre; penso che sarò occupato per tutta la durata del mio soggiorno, però mi piacerebbe venirti a trovare. Eravamo amici tanti anni fa.»

«Non posso certo impedirtelo se hai deciso di farlo. Ma se proprio devi venire, almeno vieni di sera.»

«Ma perché vuoi...»

Udii uno scatto, poi un secondo di quel silenzio che, stando alle farneticazioni di Zack, doveva essere pieno di onde di energia provenienti dallo spazio, e infine, il ronzio indefinito del segnale di libero.

 

Mentre stavo sistemando i sobri mobili di legno della nonna, nel tentativo di restituire al salotto la fisionomia che aveva vent'anni prima, fui raggiunto da una chiamata del secondo dei miei vecchi amici di Arden. Appoggiai la sedia che stavo spostando e risposi al telefono.

Una voce d'uomo mi chiese: «Parlo con Miles Teagarden?»

«In persona.»

«Un momento, prego.»

Un istante dopo qualcuno sollevò una seconda cornetta. «Ciao Miles! Parla Hovre, il Capo della Polizia di Arden.»

«Oh, Orso Polare!»

Lui rise. «Non sono molti quelli che mi chiamano ancora così. Adesso per la maggior parte della gente io sono solo Galen.» Non sapevo che quello fosse il suo vero nome. Io continuavo a preferire Orso Polare.

«Non c'è più nessuno che osa chiamarti Orso Polare?»

«Oh, forse tuo cugino Duane. Ho sentito che hai già messo in subbuglio la città da quando sei arrivato.»

«Niente di grave.»

«No, no. Niente di grave. Freebo mi ha detto che se continui ad andare da lui tutti i giorni, forse rinuncerà all'idea di vendere il bar. Stai lavorando ad un altro libro, adesso?»

Così Freebo gli aveva spifferato la mia storia estemporanea sul libro di Maccabee. «Proprio così. E sono venuto qui alla ricerca di pace e di tranquillità.»

«Che peccato che tu sia arrivato proprio in questo frangente, con la contea sconvolta da queste orribili tragedie. Senti Miles, mi chiedevo se ci potevamo incontrare per fare quattro chiacchiere. Magari abbastanza presto...»

«Presto quanto?»

«Oggi, per esempio.»

«Di che cosa si tratta?»

«Niente di particolare. Solo una chiacchierata fra amici. Avevi per caso in programma di fare un salto ad Arden questo pomeriggio?»

Fui sopraffatto dalla seccante sensazione che avesse ascoltato telepaticamente la mia conversazione con Paul Kant. «Pensavo che tu fossi parecchio impegnato in questi giorni.»

«C'è sempre tempo per una reimpatriata con un vecchio amico. Che cosa ne pensi? Potresti fare un salto tu qui nel pomeriggio, se ti va. Siamo sempre nella stessa sede, sul retro del palazzo di giustizia.»

«Ok, penso di poter venire.»

«Perfetto, Miles. Allora ti aspetto, d'accordo?»

«Mi chiedo che cosa sarebbe successo se ti avessi risposto che non potevo.»

«Perché? Che cosa ti fa pensare che sarebbe successo qualcosa?»

Ma perché? Sembrava quasi che Orso Polare avesse controllato i miei movimenti dal momento in cui avevo messo piede nella valle. Che uno dei nemici di Paul mi avesse visto mentre intascavo il libro di Maccabee? No. In quel caso non mi avrebbero lasciato uscire dal negozio.

Continuando a pensare a questo, e un po' turbato dal tono serio del mio amico, salii di sopra nel mio studio improvvisato e mi sedetti alla scrivania. Come mi sembrava lontana: era come se non io, ma un'altra persona avesse staccato i due pomelli sfaccettati e avesse coricato il pannello di legno sui due cavalietti. I miei miseri appunti e le misere bozze. Aprii una cartellina e ne sfogliai rapidamente il contenuto; ad un tratto mi fermai e lessi una frase: "Uno dei temi ricorrenti all'interno dell'opera di Lawrence è quello di una scelta sessuale che rappresenta una scelta di morte (o di semi-vita) rispetto a quella di una vita totalmente impegnata e personalizzante." L'avevo davvero scritta io quella frase? Avevo insegnato cose simili ai miei studenti? Mi chinai e presi a casaccio alcuni dei libri che avevo impilato sul pavimento. Li legai con un pezzo di spago, uscii rapidamente di casa e mi avviai lungo il viottolo che conduceva all'abitazione di mio cugino.

«Non leggerò mai questa roba» mi disse Alison Updhal. «Non sei tenuto a darmi niente.»

«Lo so. Nemmeno tu sei tenuta a darmi niente.» Lei mi guardò con aria infelice. «Ma almeno questa è stata una mia idea.»

«Ti dispiacerebbe... Ti dispiacerebbe se li dessi a Zack? È lui l'intellettuale, non io.»

«Fanne quello che vuoi. In ogni caso, mi risparmi il tempo di buttarli via.» Feci per andarmene.

«Miles?»

«Non è che non fossi attratto da te. Tutt'altro. Se vuoi proprio saperlo, trovo che tu sia davvero molto seducente. Ma io sono troppo vecchio per te e poi sono anche ospite di tuo padre. Comunque, se vuoi un consiglio spassionato, penso che faresti meglio a lasciar perdere Zack. E matto e finirà solo per farti del male.»

«Tu non capisci» mi rispose Alison. Teneva fra le mani il piccolo fascio di libri e mi fissava con un'aria terribilmente infelice.

«No, penso di no.»

«Non c'è nessuno come lui da queste parti. Proprio come non c'è nessuno come te.»

Mi asciugai la fronte con il dorso della mano. Stavo sudando come il tamburino di una banda in una sera d'estate. «Io non rimarrò qui a lungo, Alison. Non pensare che io sia quello che non sono.»

«Miles» disse, poi tacque imbarazzata. «C'è qualche cosa che non va?»

«E troppo complicato da spiegare». Lei non replicò e quando sollevai lo sguardo sul suo viso schietto, vi scoprii l'espressione di un'altra persona, una persona con problemi troppo grandi per poter venire esternati a parole. Sentii l'impulso di prenderle la mano e fui sul punto di farlo. Ma non avrei potuto accampare la fasulla autorità della vecchiaia che quel gesto implicava.

«Ah ...» mormorò lei mentre, per la seconda volta, mi voltavo per andarmene.

«Sì?»

«In parte l'idea è stata mia, ma immagino che adesso tu non mi crederai.»

«Alison, ti prego sta attenta» l'ammonii con voce accorata.

Percorsi a ritroso il viottolo illuminato dal sole e ritornai alla vecchia fattoria. A poco a poco, i postumi della sbornia si erano ridotti ad una sensazione, non del tutto sgradevole, di lieve vuoto. Quando raggiunsi la VW, che avevo parcheggiato davanti al garage, mi resi conto che il sole mi stava riscaldando il viso e le spalle. Una ventina di metri più oltre, alla mia destra, la giumenta stava brucando l'erba, fingendo, nell'interesse di riempirsi ben bene la pancia, di essere anche lei una mucca, come le sue compagne di pascolo. Di fronte a me, i noci erano alti e robusti: l'emblema della salute. Mentalmente, augurai la medesima sorte ad Alison Updhal e a me stesso; avvertivo la sua presenza immobile sull'uscio di casa, intenta a seguirmi con gli occhi mentre mi allontanavo. In tutta sincerità avrei davvero voluto poter fare qualcosa per lei, qualcosa di forte e di diretto. Sul versante opposto della valle, un falco si avvitò a spirale sopra le colline. Proseguii verso l'estremità del viale d'accesso, dove si trovava la buffa cassetta delle lettere fatta a mo' di uccelliera. Con ogni probabilità Tuta Sunderson se ne era andata prima dell'arrivo della Ford polverosa del postino.

L'aprii e ne estrassi un voluminoso pacco di depliant e di lettere. L'ultima di queste era racchiusa in una busta identica a quella che avevo ricevuto due giorni prima e, come quella, era stata spedita da Arden; anche la grafia era la stessa, regolare ed elegante. Per un attimo, mi sembrò di averci letto sopra il mio nome. Quando, dopo alcuni secondi, mi resi conto di chi fosse il reale destinatario, sollevai istintivamente gli occhi sui vasti campi di granoturco e spaziai con lo sguardo fino al limite del bosco. Ma non vidi nessuna figura intenta a guardare davanti a sé con espressione di distaccata attesa e calma olimpica. Mi tremavano le mani. Esaminai di nuovo la busta: no, non mi ero sbagliato. Era indirizzata ad Alison Greening. Presso (il mio nome), RFD 2, Norway Valley, Arden. Un raggio di sole si insinuò dietro le mie pupille, ferendomi. Sopraffatto dall'angoscia inserii a casaccio un dito sotto il lembo e strappai la busta. Sapevo già che cosa conteneva. Spiegai il foglio con le mani sudate: come prevedevo, era immacolato. Neanche un cuore trapassato da una freccia, o una minuscola macchiolina nera. Niente di niente.

In fondo alla strada, Tuta Sunderson stava arrancando verso di me, con la borsa a tracolla che le rimbalzava sul sedere. Per un po' mi sforzai di restare fermo ad aspettarla, ma poi finii per correrle incontro, boccheggiando per l'emozione.

«È arrivato qualcosa per lei?»

«No, sì, cioè non so. Senta, signora Sunderson, non ho ancora finito di mettere a posto il soggiorno, per cui oggi non lo può pulire. Si ritenga pure libera se vuole. Io devo uscire.» Poi, ricordando la telefonata di quella mattina, aggiunsi: «Se suona il telefono lei non risponda.» Quindi, divorai la strada in senso opposto e raggiunsi la VW.

Strapazzando il cambio e facendo gemere il motore, attraversai il prato a razzo, sterzando appena in tempo per evitare gli alberi; dopodiché mi immisi come una saetta sulla strada della valle.

Tuta Sunderson era ancora ferma nel punto in cui l'avevo lasciata, il corpo carnoso ben piantato sui piedi robusti: con espressione ebete e la bocca semi-aperta mi guardò mentre le sfrecciavo davanti.

Ma non avevo alcuna intenzione di presentarmi a Orso Polare con le manette ai polsi, scortato da qualche stupido poliziotto di Arden, e, poco prima di raggiungere la città, ridussi bruscamente la velocità a quaranta miglia orarie; cosicché, quando fui in prossimità del tratto pianeggiante dove sorge la scuola media, procedevo appena al di sopra dei limiti stabiliti dalla legge. Notai con piacere che la mia non era la sola macchina in circolazione e che diverse persone stavano camminando sul marciapiede. Su un davanzale un gatto stava facendo toilette. Insomma, quel pomeriggio Arden non aveva l'aspetto lugubre e desolato con il quale mi aveva accolto due giorni addietro, ma mi apparve per quella che in realtà doveva essere: una normale cittadina con il suo abituale, sonnolento tran-tran. Entrai nel parcheggio di fronte a Zumgo's e mi fermai con la delicatezza di una colomba. La busta piegata mi gonfiava la tasca della giacca; mi sentivo come un uomo in equilibrio s'opra un guscio d'uovo e sapevo che c'era un solo modo sicuro di vincere quell'orribile sensazione. Indugiai ad ascoltare le voci che provenivano dalla strada e che, quel giorno, avevano preso il posto dei battiti d'ala dei piccioni; poi, con piglio deciso, scesi dall'auto ed entrai da Zumgo's. Per fortuna, quel mattino il negozio era affollato di donne impegnate a fare la spesa. Erano quasi tutte di stazza piuttosto robusta e il loro profilo appesantito era costretto in orribili corpetti e in gonne troppo corte; sapevano di concime e di cortili brulli, di birra alla spina di poco prezzo e di ciambelle stantie. Era quello il pubblico davanti al quale avrei eseguito la mia auto-terapia. Attraversai i corridoi, fingendo di essere alla ricerca di qualche oggetto in particolare. Nessuno mi notò, nemmeno le due vecchie streghe che avevano riso di me la volta precedente. Sembravo un padre di famiglia in giro per commissioni e tale io mi consideravo e mi sentivo.

Non sono un cleptomane: è scritto, nero su bianco, in una lettera del mio analista, che lo esclude recisamente. Estrassi dal portafoglio un biglietto da dieci dollari e lo piegai fra l'indice e il medio della mano destra.

 

A questo punto è necessaria una breve digressione per fare due osservazioni. La prima è ovvia. Pensavo di aver riconosciuto la grafia sulle due buste ed ero convinto che le lettere anonime mi fossero state spedite niente meno che da Alison Greening. Era pura follia, me ne rendevo conto, ma sapevo che si trattava di un'ipotesi non meno folle di quella del suo ritorno, il ventun luglio successivo, per mantenere la promessa che ci eravamo scambiati vent'anni prima. Forse mi stava lanciando un segnale, un segnale per incoraggiarmi a tenere duro fino a quel giornp. La seconda osservazione riguarda la mia propensione al furto. Io non mi sono mai considerato un ladro, se non, forse, a qualche livello del subcosciente che riempie i miei sogni di sensi di colpa. Odio rubare. Il libro di Maccabee è stata la prima cosa che ho rubato dopo quindici anni di comportamento irreprensibile. Ripensando ai furti che avevo commesso nella mia infanzia, una volta chiesi al mio analista se riteneva che fossi cleptomane. No di certo, fu la sua risposta. Io lo pregai di metterlo per iscritto. Lui mi disse che i miei cinquanta minuti erano scaduti e me lo scrisse a macchina su un foglio di bloc-notes. Eppure, ci sono momenti in cui io so con assoluta certezza che ho un unico modo di recuperare il mio equilibrio mentale. È come mangiare: ficcarsi il cibo giù in gola molto dopo che è passata la fame.

Dunque, quello che avevo intenzione di fare era una ripetizione della mia mimica del furto: avrei infilato in tasca qualcosa di nascosto e poi, prima di uscire, avrei lasciato i dieci dollari alla cassa. La prima tentazione la ebbi al reparto casalinghi, quando vidi un nuovo modello di cavatappi appoggiato sul bancone. Appena un po' discosto c'era un espositore di coltelli a serramanico. Indugiai a lungo nei pressi del bancone, lasciandomi sfuggire almeno una decina di occasioni per allungare le mani sul cavatappi o su uno dei coltelli. Ad un tratto la cosa mi apparve faticosa e stupida.

Un'improvvisa repulsione per quella messinscena mi impose di andarmene. Ero troppo cresciuto per simili giochetti, non avevo più l'età per essere così scioccamente indulgente verso me stesso. Però soffrivo ancora. Andai al piano di sopra dove c'erano i libri.

Feci girare lentamente l'espositore: tu non ruberai più, mi dissi. Non farai più nemmeno finta di rubare. I romanzi d'amore con, in copertina, immagini di donne in fuga da misteriosi castelli, facevano la parte del leone. Non vidi altre copie del Sogno Incantato: averne trovata una era già stato un miracolo. Con finta pigrizia piegai il capo e diedi una rapida scorsa ai dorsi. Niente.

Quando ormai stavo per rinunciare, mi capitò sotto gli occhi un libro che avrebbe potuto sostituire più che degnamente quello del Maccabee. Si trattava di un romanzo di Lamont Withers, che era stato il più loquace e noioso oratore del seminario su Joyce a cui avevo preso parte alla Columbia University, e che adesso insegnava a Bennington: Una visione del pesce, un romanzo sperimentale, contrabbandato, come facevano presumere i due androgeni che si abbracciavano sulla copertina, per un romanzo d'amore. Presi il libro e lessi la quarta di copertina: magistrale opera di sensibilità... Cleveland Plain Sealer. Sorprendente e arguto... Library Journal. Scrittore assai promettente, Withers... Saturday Review. Sentii i muscoli del viso che si contraevano: era financo peggio del libro di Maccabee. Sopraffatto di nuovo dalla tentazione, fui addirittura sul punto di afferrare il saggio e di infilarlo nella tasca della giacca. Ma non potevo cedere a questa ghiottoneria: non potevo comportarmi come mi comportavo venti anni prima. Tenni il libro ostentatamente in mano e scesi le scale. Quando raggiunsi la cassa, pagai come un qualsiasi onesto cittadino e attesi il resto.

Respirando affannosamente, con il viso in fiamme, ma l'animo in pace, aprii la macchina e mi sedetti al posto di guida. Non rubare dava una sensazione molto migliore che rubare o fingere di rubare. Non rubare, lo sapevo da molti anni, era il solo modo per acquistare. Mi sentivo come un alcolizzato che ha appena bevuto un bicchierino.

Era ancora troppo presto per fare visita a Orso Polare; così tastai la lettera piegata che avevo messo in tasca e decisi di andare... già, dove altro potevo andare? Ma da Freebo's, naturalmente, a festeggiare. Fra morti e fallimenti, almeno una missione portata a termine con successo.

 

Mentre attraversavo la strada, poco ci mancò che un oggetto piccolo e appuntito mi trapassasse la schiena, all'altezza delle scapole. Sentii il rumore di un sasso che rotolava sull'asfalto. Stupidamente, lo seguii con gli occhi fino a quando non si fermò, anziché voltarmi a guardare sul marciapiede. C'erano ancora numerosi passanti, intenti a simulare quel sonnolento andirivieni tipico delle piccole città. Sembrava che tutti evitassero di guardarmi, che evitassero perfino di guardare nella mia direzione. Un istante dopo vidi i tizi che con ogni probabilità mi avevano lanciato il sasso. Erano cinque o sei uomini di mezza età, piuttosto corpulenti; due o tre indossavano tute da lavoro, gli altri abiti decisamente frusti. Erano fermi davanti all'Angler's bar e mi fissavano, sorridendosi l'un l'altro. Li guardai, ma non riuscii a costringerli ad abbassare gli occhi... proprio come alla tavola calda di Plainview. Non conoscevo nessuno di loro. Quando mi girai per andarmene, un secondo sasso mi sibilò vicino alla tempia. Un altro mi colpì la gamba destra.

Amici di Duane, pensai, ma subito dopo mi resi conto che non poteva essere. Se si fosse trattato solo di quello, si sarebbero limitati a ridere. Quel silenzio così risoluto era più minaccioso del lancio delle pietre. Voltai la testa. Erano ancora lì, in gruppo, con le mani in tasca, davanti alla vetrina scura del bar. E mi guardavano. Mi rifugiai da Freebo's.

«Chi sono quegli uomini?» chiesi al proprietario. Freebo uscì rapidamente da dietro il banco e, asciugandosi le mani su un canovaccio, si affrettò verso di me.

«Lei mi sembra un po' scosso, signor Teagarden,» mi disse.

«Mi dica chi sono quegli uomini. Voglio sapere i loro nomi.»

Vidi gli avventori seduti al banco, due signori vecchi e magri, prendere i loro bicchieri e allontanarsi senza parlare.

«Quali uomini, signor Teagarden?»

«Quelli là, sul lato opposto della strada, davanti al bar.»

«Ah-ah, vuol dire l'Angler's. Capisco... Il fatto è che io non vedo nessuno lì davanti. Sono spiacente signor Teagarden.»

Mi avvicinai alla finestra, lunga e stretta, che si affacciava sulla strada e guardai fuori. Erano spariti. Una donna con i capelli ricci stava spingendo una carrozzina in direzione del panificio Meyer's.

«Ma le assicuro che erano lì un attimo fa» insistetti. «Erano cinque, forse sei. Un paio erano contadini. Mi hanno lanciato dei sassi.»

«Non so, signor Teagarden. Forse si è trattato solo di una coincidenza.»

Mi voltai a guardarlo con gli occhi sgranati.

«Lasci che le porti qualcosa da bere. Offre la casa.» Ritornò dietro il banco e mise un bicchierino sotto il collo di una bottiglia appesa a testa in giù. «Ecco qua. Beva questo.» Obbediente, lo tracannai in un solo sorso. «Vede, signor Teagarden, siamo tutti ancora molto scossi per quanto è accaduto in questi ultimi giorni. Forse le hanno tirato i sassi perché non sanno chi è.»

«Magari, invece, è proprio il contrario. L'hanno fatto perché sanno chi sono. Città ospitale, Arden, vero? Non mi risponda. Mi dia soltanto qualcos'altro da bere. Devo vedere Orso Polare, cioè Galen, fra un po', ma ho intenzione di restare qui, fino a quando se ne saranno andati tutti a casa.»

Freebo sbatté le palpebre. «Come vuole lei.»

Bevvi sei whisky, sorseggiandoli lentamente. Passarono molte ore. Ad un certo punto ordinai un caffè, poi un altro liquore. Gli altri avventori mi sbirciavano di sottecchi, pronti a spostare lo sguardo sullo specchio ogni volta che alzavo il bicchiere o mi appoggiavo al banco. Ero esasperato. Ad un tratto presi dalla tasca della giacca il libro di Withers e cominciai a leggerlo. Continuai a passare dal whisky alla birra finché mi ricordai che quel giorno non avevo ancora mangiato.

«È possibile mangiare un sandwich in questo bar?»

«Certo. Adesso gliene preparo uno, signor Teagarden. Anche una tazza di caffè magari?»

«Una tazza di caffè e un'altra birra.»

Il libro di Withers era illeggibile. Era di una banalità inaudita. Cominciai a strappare le pagine. Una volta trovato uno schema, bisogna mantenerlo. Adesso gli altri clienti del bar mi fissavano apertamente, senza cercare di nascondersi. «Ce l'ha un cestino della carta straccia, Freebo?»

Lui mi porse un cestino di plastica verde. «Questo è un altro dei suoi libri?»

«No, io non ho mai scritto niente che valesse la pena di essere pubblicato. Gettai le pagine che avevo strappato nel cestino. Gli altri avventori mi stavano guardando come si guarda una scimmia al circo.

«Lei è molto scosso, signor Teagarden» mi disse Freebo. «Vede, continuare a bere non le sarà di nessun aiuto. Ha già bevuto molto ed è, come dire, scombussolato. Penso che le farebbe bene uscire a prendere una boccata di aria fresca. Lei qui ha tutto pagato e io adesso non posso servirle più niente. Dia retta a me. Vada a casa e si riposi.» Mi si avvicinò e, continuando a parlarmi in tono pacato, mi accompagnò gentilmente verso la porta del bar.

«Voglio comprare un giradischi. Pensa che possa ancora farlo o che sia troppo tardi?»

«Penso che i negozi abbiano appena chiuso, signor Teagarden.»

«Vorrà dire che lo comprerò domani. Adesso devo andare da Orso Polare Galen Hovre.»

«Mi sembra una buona idea.» La porta si chiuse dietro di me ed io mi ritrovai solo sulla Main Street deserta. Stava lentamente imbrunendo, anche se mancavano ancora un paio d'ore al crepuscolo. Fu allora che mi resi conto di aver trascorso la maggior parte della giornata al bar. Tutti i negozi avevano esposto il cartello "CHIUSO". Diedi un'occhiata all'Angler's bar: da fuori sembrava vuoto come Freebo's. Passò una macchina, che piegò in direzione del palazzo di giustizia. Adesso, sentivo di nuovo il battito d'ali dei piccioni, che volavano descrivendo cerchi nel cielo.

In quel momento la città sembrava abitata dagli spiriti. Il Midwest era il posto più adatto per i fantasmi, pensai. Davvero. Potevano gremire la Main Street e popolare i campi. Mi sembrava quasi di sentirli intorno a me.

Ero assorto in questi pensieri sinistri quando un rumore di passi alle mie spalle mi fece trasalire. Mi voltai a guardare, ma non vidi nient'altro che la strada deserta, con le macchine parcheggiate simili a gusci vuoti d'insetto. Quando girai nuovamente la testa, lo scalpiccio riprese, sempre più intenso, come se fossi inseguito da un'intera folla. Cominciai a camminare più in fretta, ma loro mi seguivano. Davanti a me la strada era una striscia d'asfalto desolata, con una fila di auto vuote allineate sui due lati e le vetrine buie dei negozi chiusi. Ad un tratto udii lo sfrigolio dell'insegna al neon di un negozio di cucine. La realtà sembrava sul punto di dissolversi davanti ai miei occhi: perfino il marciapiede e i muri di mattoni sembravano una linea tesa su un vuoto angosciante. Cominciai a correre e anche le persone che mi inseguivano si misero a correre. Mi voltai a guardare e fui quasi sollevato quando vidi un gruppo di uomini dal torace robusto che divoravano la strada nel tentativo di raggiungermi.

Il palazzo di giustizia si trovava a soli quattro isolati di distanza, in linea retta rispetto alla Main Street, ma non avevo la benché minima chance di arrivarci prima che i miei inseguitori mi acciuffassero. La fugace occhiata di poco prima era stata sufficiente per permettermi di vedere che alcuni erano armati di bastoni. Piegai nella prima laterale che incontrai, poi ancora a destra, in un vicolo buio. Quando raggiunsi l'ingresso posteriore di Freebo's, mi acquattai dietro due grandi bidoni della spazzatura: non avevo il tempo di raggiungere l'estremità della viuzza. Era chiaro che il gruppo dei miei inseguitori si era diviso. Due uomini comparvero all'inizio della vicolo e si avviarono a passo di corsa nella mia direzione. Io cercai di nascondermi il più possibile dietro i due bidoni. I loro passi si fecero più vicini, fino a quando udii il loro respiro affannoso. Sembravano ancora meno allenati a correre di quanto non lo fossi io.

«Merda!» protestò con enfasi uno dei due.

Aspettai fino a quando non li sentii tornare indietro; oltrepassarono il mio nascondiglio, quindi procedettero rumorosamente verso l'imboccatura del vicolo. Sbirciai con cautela e vidi che giravano a destra per ricongiungersi al grosso del gruppo. Con la schiena rasente ai muri e le gambe pronte allo scatto, percorsi la viuzza per tutta la sua lunghezza. Con circospezione, scrutai Madison Street: due isolati più a sud, i miei inseguitori stavano infierendo su una vecchia macchina parcheggiata davanti ad una casa dall'aspetto alquanto decrepito. Ad un certo punto, uno la colpì con un lungo bastone, il manico di un'ascia, o una mazza da baseball: i vetri esplosero e i frantumi schizzarono in tutte le direzioni.

Non riuscivo a capire che cosa stesse accadendo. Si trattava soltanto di ubriachi scalmanati pronti a sfogarsi sul primo bersaglio che capitava loro sotto tiro? Nella speranza che impegnati com'erano a distruggere la macchina, non si accorgessero di me, attraversai di corsa la strada. Un improvviso accavallarsi di grida concitate mi annunciò che ero stato visto. Per poco non caddi sull'asfalto in preda al terrore. Mi precipitai nel vicolo e uscii sulla Monroe Street, mentre, alle mie spalle, le urla dei miei inseguitori crescevano e rimbombavano minacciose. Girai rapidamente l'angolo e ritornai sulla Main. Non mi restava che una manciata di secondi per mettermi in salvo. D'istinto afferrai la maniglia di un auto, aprii la portiera e, con il cuore che mi martellava in gola, mi nascosi nel vano fra il sedile anteriore e quello posteriore. Il sacchetto vuoto di una merendina mi svolazzò davanti al naso; dai tappetini, sudici e pungenti, si sollevarono nuvole di polvere. Mi tappai le narici e dopo un po' il bisogno di starnutire se ne andò. Fuori, i miei inseguitori mi stavano dando la caccia: li sentivo correre sul marciapiede e, ogni tanto, qualcuno per la rabbia sferrava un pugno o una mazzata contro le auto parcheggiate.

La falda di una camicia sudicia sfiorò l'unico finestrino che, dalla mia posizione, riuscivo a vedere. Poi qualcuno vi premette contro una mano, piatta e bianca come una stella marina morta. Dopodiché, vidi solo il cielo che incupiva. Pensai: e se muoio qui dentro? Se il mio cuore cede e io rimango sepolto in questa macchina puzzolente? Chi mi troverebbe? Quel pensiero mi gettò nella disperazione più nera. Dopo un po' riacquistai sufficiente coraggio per alzarmi e dare un'occhiata al di sopra del sedile. Non erano molto lontani dall'auto e si stavano guardando intorno visibilmente sconcertati per la mia scomparsa. Erano solo in quattro, meno di quanto credessi. Non sembravano gli uomini che mi avevano preso a sassate; erano decisamente più giovani. Con una rapida corsa si spostarono di una decina di metri. Poi si misero a camminare, guardando a destra e a sinistra e sbattendo le mazze da baseball contro il cordolo. Non c'era nessun altro nella strada, oltre a loro, in quel momento. Quando una macchina passò, si piegarono a scrutare il viso del guidatore. Attesi pazientemente fino a quando non ebbero oltrepassato il palazzo di giustizia di parecchi isolati, dopodiché, con molta cautela, scivolai fuori dall'auto e mi acquattai sul marciapiede.

Adesso i quattro uomini si trovavano sul marciapiede opposto, a parecchie centinaia di metri da me, quasi sul ponte che attraversa il fiume Blundell. Il palazzo di giustizia era a circa metà strada. Iniziai a camminare cercando di non far rumore. Adesso i miei inseguitori avevano raggiunto il ponte e si erano appoggiati alla balaustra: stavano chiacchierando; qualcuno accese una sigaretta. Piegato in due, senza correre per non attirare la loro attenzione, guadagnai un altro centinaio di metri. Ad un tratto uno degli uomini scagliò per terra la sigaretta e mi puntò contro l'indice teso.

Con reazione immediata, io piegai gambe e gomiti e mi lanciai nella corsa più veloce di tutta la mia vita. È soltanto una questione di ritmo: falcate lunghe e sciolte, ottenute coordinando ogni singolo muscolo del corpo. Rimasero perplessi nel vedermi correre nella loro direzione, anziché in quella opposta, ma quando raggiunsi il palazzo di giustizia e, girando su una gamba sola, affondai verso il retro dello stabile, si gettarono al mio inseguimento lanciando grida belluine. Strinsi i pugni e, descrivendo ampi archi nell'aria, divorai l'asfalto del parcheggio. Raggiunsi le auto della polizia proprio nel momento in cui stavano entrando nell'area di sosta. Sentii i poliziotti imprecare e schiacciare rapidamente il freno nel tentativo di evitarmi.

Qualcuno mi urlò contro qualcosa che non capii. In un angolo del parcheggio un motore ruggì e, subito dopo, vidi un uomo in giubbetto nero allontanarsi a grande velocità a bordo di una moto. Ebbi l'impressione che si trattasse di Zack, ma non ne ero sicuro. Comunque, quel rumore improvviso gettò nel panico i miei inseguitori; cosicché, quando raggiunsi la porta gialla, con una spessa lastra di vetro incassata sopra la scritta POLIZIA, si erano già dileguati. Avevo la gola in fiamme.

Un agente in uniforme, che si stava accingendo ad inserire un foglio nella macchina da scrivere, voltò verso di me il viso carnoso. Io chiusi la porta e mi ci appoggiai contro, respirando a fatica.

Stringendo ancora il foglio fra le mani, il poliziotto si alzò in piedi, ed i miei occhi si posarono sulla pistola d'ordinanza che gli pendeva dal cinturone.

«Mi chiamo Miles Teagarden» gli dissi. «Ho un appuntamento con il Capo.»

«Ah-ah» mi rispose, appoggiando il foglio sul tavolo con deliberata lentezza. Il mio torace si alzava e si abbassava affannosamente.

«Ho appena vinto una corsa. La prego non mi spari.»

«Se ne stia buono lì per un attimo.» Il poliziotto fece il giro della scrivania senza mai togliermi gli occhi di dosso e senza allontanare troppo la mano dal calcio della rivoltella. Con la mano sinistra trovò il telefono. Quando portò la cornetta all'orecchio diede una rapida occhiata alla fila di pulsanti che si trovavano sotto il disco, ne spinse uno e fece un solo numero. «C'è qui Teagarden.» Dopodiché riagganciò.

«Può entrare subito. La sta aspettando. Prenda quella porta lì e poi quella con su scritto Capo della Polizia.»

Annuii e "presi" la porta che mi aveva indicato. L'ufficio di Orso Polare si trovava in fondo al corridoio. Era una stanza di tre metri per quattro, occupata per la maggior parte da vecchi schedari verdi e da una malconcia scrivania di legno. Quasi tutto il restante spazio lo occupava Orso Polare.

«Gesù benedetto, Miles, siediti» mi disse indicandomi la sedia di fronte al suo tavolo. «Dalla tua faccia si direbbe che hai avuto una giornata piuttosto faticosa.» Guardandolo, mi resi conto per la prima volta della nostra reale differenza di età. Doveva avere solo un paio d'anni meno di Duane, ma la sua allegra turbolenza me lo aveva sempre fatto credere più giovane. Osservando il suo corpo massiccio e il suo viso quadrato e serio, stentai a riconoscere in lui il ragazzo che, insieme a me, si era divertito a prendere di mira con la cerbottana il povero gregge di Bertillson. Anche il motivo che aveva dato adito al suo soprannome era svanito: la sua folta chioma, un tempo bianca come la neve, si era scurita e ridotta a quattro peli che gli ombreggiavano il cranio, che sembrava fatto di gomma.

«Ti trovo piuttosto cambiato dall'ultima volta, ma è bello vederti di nuovo.»

«Eh, sì, noi due ce la siamo spassata un bel po' insieme, vero?»

«Sì, me la sono spassata un mucchio anche oggi. Mentre venivo qui una banda di tuoi concittadini, armati di mazze da baseball si è messa ad inseguirmi. L'ho scampata per miracolo.»

Orso Polare inclinò la testa all'indietro e arricciò le labbra. «È per questo che sei arrivato tardi al nostro appuntamento?»

«Il nostro appuntamento è la sola ragione per cui mi trovo qui e non fatto a pezzi nel vicolo dietro Freebo's. Hanno smesso di darmi la caccia solo perché sono riuscito a raggiungere il vostro parcheggio.»

«Ah, sei stato da Freebo's. Direi anche che ci sei stato parecchio tempo.»

«Mi stai forse dicendo che non credi a quello che ti ho detto?»

«Ultimamente, alcune teste calde del circondario ci stanno dando un po' di problemi. Per cui non ho motivo di non crederti. Immagino però che tu non li abbia visti abbastanza da vicino da poterli riconoscere.»

«Ti assicuro che ce l'ho messa tutta per non andargli così vicino.»

«Ok, Miles, adesso calmati. Stai tranquillo, non ti prenderanno. Qui dentro sei al sicuro. Cerca soltanto di calmarti. Vedrai che quei ragazzi ti lasceranno in pace.»

«Un gruppetto di altri tuoi concittadini si è anche divertito a prendermi a sassate oggi a mezzogiorno, e l'hanno fatto mentre io gli voltavo la schiena.»

«Sul serio? E tu ti sei fatto male?»

«Certo che dico sul serio. Però no, non mi sono fatto niente. Vuoi che dimentichi anche questo? Solo perché non mi hanno fatto un buco nel cranio?»

«Io voglio solo che tu non ti agiti così tanto per un pugno di scalmanati. Alcune persone di Arden, rispettabili cittadini, intendo dire non teste calde, hanno deciso che sarebbe meglio che tu lasciassi la città.»

«E perché?»

«Perché non ti conoscono, Miles. È molto semplice. Tu sei la sola persona su cui sia stata incentrata un'intera predica dacché il paese è stato fondato. Tu ti aspettavi di venire scacciato, vero?»

«No. E comunque io devo restare. Devo fare una cosa.»

«Mmm, molto bene. E hai idea di quanto questa cosa ti tratterrà qui?»

«Fino al ventuno. Dopo non so.»

«Non manca molto. Io invece vorrei chiederti di restare su da Duane fino a quando non riusciremo a far luce su alcuni fatti che sono accaduti di recente nella contea. Per te va bene?»

«Ma che cosa diavolo significa? Che non posso lasciare la città fino a quando la polizia non mi darà il permesso?»

«Io non la metterei in questi termini. Ti sto solo chiedendo un favore.»

«Questo è un interrogatorio ufficiale?»

«Ma certo che no, Miles! Stiamo solo parlando. Ho bisogno del tuo aiuto per risolvere un problema.»

Mi appoggiai allo schienale rigido della sedia. Non sentivo più l'effetto dell'alcol. Galen Hovre mi stava guardando con un mezzo sorriso che esprimeva ben poco calore. I miei sensi mi stavano dando la conferma di una mia vecchia teoria, e cioè che quando la natura di una persona cambia, cambia anche il suo odore. Una volta, Orso Polare si portava appresso un profumo denso e gradevole di terra compatta, che diventava più intenso quando, con qualche vecchio macinino, sfrecciava a settanta miglia all'ora giù per le curve della superstrada 93, o quando riempiva di sassi le cassette delle lettere. Adesso, invece, sapeva di polvere da sparo, come Duane.

«Posso contare sul tuo aiuto?»

Fissai quell'uomo dal viso quadrato, che un tempo era stato mio amico, senza essere capace di credere ad una sola delle sue parole. «Ma certamente.»

«Immagino tu abbia sentito di quelle due ragazze che sono state uccise, Gwen Olson e Jenny Strand. È stato il tuo vicino, Red Sunderson, a trovare la Strand e ti assicuro che non era un bello spettacolo. Il mio vice, Dave Lokken, ha dato di stomaco quando l'ha vista.»

«In effetti, mi sembra ancora piuttosto scombussolato.»

«Qualunque persona normale lo sarebbe» rispose Hovre amabilmente. «La verità è che siamo tutti sconvolti qui attorno. Quel dannato figlio di puttana è ancora in giro, capisci Miles? Potrebbe essere chiunque e questa è la cosa che sta facendo dare di matto a tutti quanti. Ci conosciamo tutti da queste parti e la gente non sa più che cosa pensare.»

«Non hai neanche la più vaga idea di chi potrebbe essere?»

«Be', stiamo tenendo d'occhio un tale, ma secondo me è improbabile che sia lui l'assassino. Comunque vorrei che la storia non si diffondesse troppo. Sono Capo della Polizia da quattro anni e vorrei che mi riconfermassero ancora. Ora, il punto è questo: tu sei nuovo qui e forse puoi notare cose che a noi sfuggono. Tu hai studiato e sei un buon osservatore. Mi chiedevo se per caso avessi visto o sentito qualcosa che potrebbe essermi di aiuto.»

«Aspetta un momento. Quella gente che mi ha dato la caccia, pensa forse che sia stato io... pensa forse che sia stato io a commettere quegli omicidi?»

«Questo dovresti domandarlo a loro.»

«Oh, Cristo! E io che non ci avevo nemmeno pensato! Ero troppo preso dai miei problemi. Non sono venuto qui per questo.»

«Mi sembra di capire che potresti essere di aiuto non solo a me, ma anche a te stesso, se ti venisse in mente qualcosa.»

«Ma non dovrebbe essere così. Non c'è motivo per cui dovrei darmi da fare per tirarmi fuori dai guai, quando non c'entro niente.»

«Se le cose andassero sempre come dovrebbero...»

Aveva ragione. «Ok, capisco. Comunque non mi sembra di aver notato niente. Solo un sacco di gente che si comporta in modo strano, come se avesse paura. Alcuni sono molto ostili. Ho conosciuto un ragazzo un po' strambo ma...» Quel "ma" significava che non avevo alcuna intenzione di dire qualcosa che potesse attirare i sospetti su Zack o su Alison. Orso Polare inarcò le sopracciglia in un gesto di indifferente, paziente attesa. «Ma è solo un ragazzo. Non voglio nemmeno nominarlo. Non so proprio che cosa dirti che potrebbe esserti di aiuto.»

«Non ancora, magari, ma forse più tardi ti verrà in mente qualcosa. Mi prometti che ci penserai, vero?»

Annuii.

«È probabile che per il ventuno avremo già tutta la verità servita su un bel piatto d'argento, per cui non starti a preoccupare. Bene, adesso ci sono ancora due cose di cui vorrei discutere con te.» Inforcò un paio di spessi occhiali scuri e prese un foglio da una pila disordinata. «Mi sembra di capire che un po' di giorni fa hai avuto un piccolo problema a Plainview. Mi è arrivato il rapporto proprio ieri. Un tizio di nome Frank Drum ha preso il numero di targa della tua auto.»

«Gesù!» esclamai io pensando all'impiegatucolo con lo sguardo furtivo che era stato spedito fuori dalla tavola calda.

«È stato dopo un incidente accaduto al Grace's Restaurant. Te ne ricordi?»

«Se me ne ricordo! Erano come i teppisti di oggi pomeriggio, che volevano prendermi a mazzate in testa.»

«Che ti hanno inseguito» precisò Orso Polare. Sollevò gli occhi dal foglio e mi guardò con durezza.

«È la stessa cosa. Quello che è accaduto in quel ristorante è semplicemente ridicolo. Quando sono entrato ho visto alcuni uomini che stavano ascoltando la radio con aria così cupa che, istintivamente, ho chiesto che cosa fosse successo. Evidentemente non gli piaceva la mia faccia e non gli piaceva il fatto che venivo da New York. Così hanno preso il numero di targa della mia macchina e poi mi hanno cacciato fuori. È tutto. È accaduto nei giorni in cui è stata trovata la prima ragazza.»

«Per la cronaca, ti ricordi dove hai trascorso la notte precedente?»

«Da qualche parte, in un motel. Non mi ricordo bene dove.»

«E non hai una ricevuta o la matrice della carta di credito?»

«Era una schifosissima topaia appena fuori dall'autostrada. Ho pagato in contanti. Ma perché diavolo mi stai facendo tutte queste domande?»

«Non è che mi interessi, intendo dire personalmente. È stato un poliziotto di lì, un certo Larabee che mi ha chiesto di farti queste domande. Tutto qua.»

«Be', di' a Larabee di ficcarselo su per il culo. Ho dormito in un lurido motel dell'Ohio.»

«Ok, Miles, stai calmo. Va tutto bene. Non è il caso che ti agiti di nuovo. Che cos'hai fatto alla mano?»

Mi guardai con sorpresa la mano fasciata. Il cerotto era lurido e stava cominciando a staccarsi, scoprendo lembi di garza sporca. Mi ero quasi dimenticato della fasciatura di Duane.

«Ho avuto un incidente con la macchina. In macchina, per la verità. Mi sono tagliato.»

«Dave Lokken ti farà una medicazione nuova prima che te ne vada. È molto orgoglioso della sua abilità di infermiere. Quand'è che ti sei ferito?»

«Sempre quel giorno. Poco dopo essere uscito dalla tavola calda.»

«Secondo quanto ha dichiarato un altro avventore, tale Al Service, prima di andartene tu avresti fatto un commento curioso... Al sostiene che tu ti sei augurato che venisse uccisa un'altra ragazza.»

«Ma non volevo dire quello, naturalmente. Ero arrabbiato, tutto qui. In quel momento non sapevo nemmeno che fosse stato ammazzato qualcuno. Devo aver detto qualcosa del tipo "Di qualunque cosa si tratti, vi meritate che vi capiti ancora". Dopodiché sono fuggito a gambe levate.»

Orso Polare si tolse gli occhiali e appoggiò una guancia sulla mano rotonda. «Penso che adesso sia tutto chiaro, Miles. Ti hanno solo fatto arrabbiare. Capita a tutti. Anche tu hai fatto agitare la vecchia Margaret Kastad, a quanto ho sentito.»

«La vecchia chi?»

«La moglie di Andy. Appena sei uscito dal negozio mi ha telefonato per dirmi che dovevo mandarti via perché scrivevi cose pornografiche.»

«Non mi va di perdere tempo a parlarne. Lei mi rinfaccia ancora alcuni miei errori di gioventù. Ma io adesso sono una persona diversa.»

«Siamo cambiati tutti, Miles. Ma questo non significa che non possiamo darci una mano a vicenda. Adesso, per esempio, tu potresti farmi subito un favore spiegando bene per iscritto quello che è successo quel giorno a Plainview. Poi ci metti data e firma e io lo spedisco a Larabee, E per il tuo bene.» Rovistò sulla sua scrivania e alla fine mi mise davanti un foglio bianco e una penna. «Basterà un breve riassunto. Quattro parole.»

«Se proprio devo.» Presi la penna e scrissi quello che era accaduto. Quindi gli restituii il foglio.

«Allora, mi farai sapere se ti verrà in mente qualcosa o se noterai qualcosa di strano?»

Misi la mano in tasca e mi ricordai della lettera. «Aspetta un attimo. Anche tu forse puoi aiutarmi a chiarire una cosa. Chi pensi che me l'abbia spedita? Dentro c'era un foglio di carta bianco.» Estrassi la busta e la distesi sul tavolo. Mi tremavano le mani. «È già la seconda. La prima era indirizzata a me.»

Orso Polare si infilò di nuovo gli occhiali e si protese per prendere la busta. Quando lesse il nome, sollevò gli occhi e mi guardò. Era la sua prima reazione genuina. «Hai detto di averne già ricevuta un'altra?»

«Sì, indirizzata a me e con dentro un foglio di carta bianca.»

«Posso tenerla?»

«No, la rivoglio indietro. La sola cosa che puoi fare è dirmi chi l'ha spedita.» D'un tratto, fui sopraffatto dalla sensazione di aver commesso un enorme sbaglio, di correre un grosso rischio. Non riuscivo a capire perché, ma quel presentimento era così forte che mi sentii mancare le ginocchia.

«Non vorrei doverlo dire, ma questa sembra proprio la tua calligrafia, Miles.»

«Che cosa?»

Appoggiò la busta sopra la dichiarazione che avevo appena firmato e girò entrambi verso di me, affinché io potessi verificare di persona. Fra la mia grafia e quella dell'autore delle lettere c'era una certa, vaga somiglianza. «Ma non è la mia scrittura, Orso Polare.»

«Non ci sono più molte persone da queste parti che possono ricordarsi questo nome.»

«Ne basta una. Ridammi la busta.»

«Come vuoi. Tanto, solo un perito potrebbe dirci qualcosa sulla calligrafia. Dave!» Si voltò verso la porta alzando la voce. «Dave, vieni qui con la cassetta del pronto soccorso. Veloce!»

«Ho sentito che lo chiama Orso Polare. Non sono più molti quelli che lo chiamano così.»

Lokken ed io stavamo camminando fianco a fianco lungo la Main Street. I rari lampioni stradali erano accesi e il silenzio immobile del crepuscolo era interrotto soltanto dal ronzio monotono delle insegne al neon. Dalla parte opposta della strada, la vetrina illuminata dell'Angler's bar riversava un rettangolo di luce gialla sul marciapiede. La mia mano sinistra era racchiusa in un guanto immacolato.

«Siamo vecchi amici.»

«Non ne dubito. Di solito, quando qualcuno lo chiama così salta per aria. Dove ha detto che è la sua auto? Penso che adesso non ci sia più pericolo.»

«Non voglio correre rischi. Il capo le ha ordinato di scortarmi fino alla macchina e desidero che lei lo faccia.»

«Merda, ma non c'è niente di cui avere paura. Non c'è in giro anima viva.»

«Questo è quello che credevo anch'io prima. Ma se non lo chiamate Orso Polare, come cavolo lo chiamate?»

«Per quanto mi riguarda, io lo chiamo Signore.»

«E Larabee come lo chiama?»

«Chi?»

«Larabee, il capo della polizia di Plainview.»

«Mi scusi, Signor Teagarden, ma penso che lei abbia perso qualche colpo. Non c'è nessun Larabee a Plainview e se anche ci fosse non sarebbe capo della polizia, per il semplice fatto che Plainview non ha un capo della polizia. C'è solo uno sceriffo, che si chiama Larson e che è mio secondo cugino. Hovre telefona giù un paio di volte alla settimana. Rientra nella sua giurisdizione, come tutti gli altri piccoli centri dei dintorni: Centerville, Liberty, Blundell eccetera. Ma dov'è la sua macchina?»

Mi ero fermato in mezzo alla strada: stavo fissando la mia VW e, al tempo stesso, cercavo di capire quello che Lokken stava dicendo. Ma dato lo stato in cui era ridotta la mia auto, non era una cosa facile.

«Mio Dio, non sarà mica quella la sua macchina?» disse Lokken.

Io annuii. Avevo la gola troppo secca per riuscire a parlare.

I finestrini erano in frantumi, le fiancate e il tetto pieni di ammaccature; uno dei due fanali sporgeva come un bulbo oculare appeso a un filo sottile. Controllai le ruote anteriori, poi feci il giro della macchina e controllai anche quelle posteriori. Erano intatte. Al lunotto, invece, era stato riservato lo stesso trattamento dei finestrini.

«Questo è danno alla proprietà. Vuole tornare indietro a sporgere denuncia? Dovrebbe farlo. E anch'io dovrei stendere un rapporto.»

«No, lo dica lei a Hovre. Questa volta almeno, mi crederà.» Sentii la rabbia crescere di nuovo dentro di me. Afferrai Lokken per un braccio e glielo strinsi con tale forza da farlo gemere. «Gli dica anche che voglio che di questo caso si occupi Larabee.»

«Ma se le ho appena detto che il mio secondo cugino...»

Ma io ero già salito in macchina e mi stavo accanendo sull'accensione.

 

Il faro che pendeva cadde rumorosamente sull'asfalto prima che raggiungessi la fine dell'isolato e, mentre lanciavo la VW su per la prima collina, sentii una delle coppe rotolare sull'erba del ciglio stradale. Attraverso il parabrezza lesionato riuscivo a vedere soltanto un quarto della strada e, anche quel quarto in maniera indistinta e annebbiata. L'unico faro su cui potevo fare affidamento illuminava alternativamente la riga gialla e le erbacce che crescevano lungo il margine della carreggiata, mentre il mio stato emotivo oscillava intorno ad un gigantesco senso di tradimento. Larabee aveva detto, vero? Era Larabee che voleva sapere della mia mano? Era Larabee che voleva essere confermato a capo della polizia?

Immaginai che sarebbe stato sempre Larabee a guardarsi bene dall'approfondire le indagini sugli uomini che mi avevano aggredito e che, non essendo riusciti a sfogarsi su di me, avevano distrutto la mia macchina.

Mentre spingevo l'auto, scossa da minacciose vibrazioni, oltre una stretta curva in salita, mi resi conto che la radio era accesa: alcune miglia prima, dovevo aver sfiorato, senza accorgermene, la manopola, e adesso un dj sconosciuto di qualche radio sconosciuta mi stava riversando addosso un mare di idiozie. «...e per Kathy, Jo e Brownie una canzone degli Hardy Boys. Immagino che voi ragazze abbiate già capito di che cosa si tratta: è un vecchio, mitico successo, "Good Vibrations".» Gridolini sguaiati di giovani voci. Innestai bruscamente la seconda, cercando di controllare la direzione della strada attraverso la ragnatela di minuscoli frammenti di vetro. Una macchina mi venne incontro a gran velocità e, quando mi oltrepassò, il guidatore sfareggiò ripetutamente e strombazzò. Quando anche l'auto che la seguiva lampeggiò un paio di volte, abbassai gli occhi sul cruscotto e mi accorsi che il mio unico faro era in posizione di luce "abbagliante".

«È troppo, davvero troppo. E adesso, dopo questo meraviglioso tuffo nel passato, un brano dolcissimo, dedicato da Sally a Frank. Senti Frank, mi sembra che lei sia davvero innamorata, per cui telefonale, ok? Vi lascio in compagnia di Johnny Mathis. A dopo, ciao ciao.»

Oltre la massicciata non si vedeva niente, se non l'aria nera e vuota. Continuai a pigiare l'acceleratore a tavoletta, sollevando un po' il piede soltanto quando dovevo cambiare marcia o la carrozzeria cominciava a vibrare. Sfrecciai oltre il termometro del Fondo della Comunità, che vidi di sfuggita solo all'ultimo momento. Il verde meraviglioso dei campi e del bosco era avvolto da una tenebra piatta.

«Ehi Frank, dovresti stare attento a questa bambola, perché prima o poi ti cucca. È cotta di te, perciò sta' in guardia. E adesso cambiamo un po' ritmo: per la classe di ginnastica femminile e per Miss Tite, un'esplosione tutta soul di Tina Turner, richiesta da Rosie B: "River Deep, Mountain High".»

Ad un tratto, al posto della strada nera mi si parò davanti un alto muro di legno: inchiodai con grande stridio di gomme e mi aggrappai spasmodicamente al volante. La coda della macchina zigzagò e poi si raddrizzò, dimostrando che in realtà le auto sono costruite con un materiale assai più elastico del metallo. La spia dell'olio si accese, poi si spense di nuovo. Continuando a procedere ad una velocità pericolosamente elevata, con la mente concentrata solo sulla tecnica di guida, arrivai in cima all'ultima collina e mi tuffai giù per la discesa che porta alla superstrada, immerso nel frastuono della musica.

Senza preoccuparmi di frenare, mi immisi nella superstrada deserta. La musica mi pulsava nelle orecchie come se fosse sangue. Oltrepassai il piccolo ponte bianco, quello vicino al quale Red Sunderson doveva aver rinvenuto il corpo della seconda ragazza assassinata. Poco dopo, una brusca curva a sinistra collegava la superstrada con la strada della valle. Respiravo a fatica come se stessi correndo.

«Uuh! Raccontatelo a chiunque ma non alla vostra insegnante di ginnastica! Questa notte tutti gli zombie sono fuori, ragazzi, per cui chiudete bene la porta di casa. Ed ecco qui una canzone per tutte le persone perdute. No, non sto scherzando, c'è scritto proprio così sul biglietto che mi hanno portato dalla redazione. Per tutte le persone perdute, da A e Z, Van Morrison con "Listen to the Lion."»

Fu in quel momento che ripresi ad ascoltare la radio. Quando fui in prossimità della stradina che portava alla fattoria di zia Rinn, rallentai. La carreggiata sembrava costeggiata da due alte montagne nere ed io ebbi l'impressione di entrare in un tunnel di tenebra e rabbrividii. Da A e Z? Alison e Zack? "Listen to the Lion" era il titolo della canzone. Un baritono dalla voce non educata pronunciava parole che non riuscivo a capire. Neppure la melodia sembrava niente di particolare. Spensi la radio. Il mio unico desiderio era quello di essere a casa. La VW sfrecciò davanti alla scuola, poi oltrepassò la facciata pomposa della chiesa. Sentii il motore che perdeva qualche colpo e accesi di nuovo gli abbaglianti.

Prima della fattoria dei Sunderson, la strada descrive una curva a gomito intorno ad un affioramento di terra arenaria: rallentai e mi piegai sul volante, aguzzando la vista sui dieci centimetri quadrati di vetro trasparente. La luce gialla del faro illuminò un campo di granoturco.

Poi, ad un tratto, vidi qualcosa che mi costrinse ad accostare bruscamente e a frenare. Scesi a precipizio dalla VW e salii sul predellino per scrutare, al di sopra del tetto, l'intera distesa dei campi, fino al limitare del bosco.

Non mi ero sbagliato: la figura leggiadra che avevo già scorto in due precedenti occasioni era di nuovo lì, fra il campo e la scura ascesa del bosco.

L'improvviso rumore di una porta che si chiuse sbattendo, mi fece trasalire. Mi voltai a guardare: alla fattoria dei Sunderson qualcuno aveva acceso la luce. Dopo alcuni secondi individuai il profilo di una robusta figura maschile che scendeva attraverso il prato in pendenza. Alzai di nuovo lo sguardo sui campi: la misteriosa figura era ancora là. Scegliere fu facile perché esisteva un'unica scelta possibile.

Saltai giù dal predellino e iniziai a correre.

«Ehi!» gridò una voce d'uomo.

Un attimo dopo avevo già saltato il fossato e stavo correndo lungo il campo di granoturco in direzione del bosco. Chiunque fosse la creatura che indugiava al limite della massa scura degli alberi, mi stava guardando, pensai, e mi permetteva di avvicinarmi.

«Fermati, Miles! Aspetta!»

Lo ignorai. Meno di quattrocento metri mi separavano ora dal bosco e mi sembrava di udire una musica. L'uomo smise di urlare. Mentre correvo verso di lei, la figura iniziò ad indietreggiare, finché scomparve fra gli alberi.

«Ti vedo» urlò l'uomo.

Non mi curai di voltarmi: il fatto che quella misteriosa creatura si fosse eclissata nell'oscurità del bosco, mi indusse a correre ancora più forte: l'emozione e la tensione erano tali che dimenticai di mettere in pratica la tecnica che avevo sperimentato nel parcheggio della polizia, e la mia corsa divenne goffa e affannosa. Il terreno, arido e compatto, era coperto di stoppie rade. Alla mia destra, i fusti del granoturco svettavano sopra la mia testa e, superata la prima fila si confondevano in un'unica massa scura. Con gli occhi fissi sul punto in cui avevo visto la figura per l'ultima volta, continuai a correre.

La prima fila di campi, quella che dalla superstrada si estende fino alla fattoria di Duane, è delimitata da un ruscello che, nonostante la modesta portata, fu l'ostacolo che mi creò i primi problemi. La zona di terra arata e coltivata terminava a circa tre metri dal corso d'acqua; quando giunsi alla fine del campo di granoturco, guardai alla mia sinistra e vidi un'area in cui l'erba era completamente appiattita: evidentemente, quello era uno dei percorsi che Duane copriva ogni giorno con il suo enorme trattore. Quando mi avvicinai mi accorsi, però, che la terra, smossa dalle ruote, era ridotta ad un pantano. In quel punto, infatti, il ruscello si allargava di circa un metro e mezzo rispetto al suo letto normale e si riversava nella depressione provocata dal trattore. Ridiscesi il pendio costeggiando la riva; uccelli e rane mi annunciarono la loro presenza, unendosi al coro dei grilli che già mi teneva compagnia. Aprendomi un varco fra un folto ammasso di lunghe erbacce fibrose, proseguii, con i piedi nel fango, fino a quando intravvidi un restringimento del torrente. In quel punto, due protuberanze di terreno erboso, sostenute dal sistema di radici di due dei numerosi pioppi che crescevano lungo entrambe le sponde, formavano una sorta di ponticello interrotto sull'acqua. Girai intorno alla pianta, raggiunsi il nodo di radici e con un balzo, atterrai sulla riva opposta, andando a sbattere con il naso e la fronte contro il tronco del secondo pioppo. Spaventati, alcuni corvi volarono via gracchiando. Con entrambe le braccia strette attorno all'albero, mi voltai verso il campo di granoturco e vidi la VW parcheggiata sulla strada, ai piedi della collina in cima alla quale si trovava la fattoria dei Sunderson. Avevo lasciato i fari accesi e, quel che è peggio mi ero dimenticato di togliere la chiave dall'accensione. Anche le luci di casa Sunderson erano accese. Affacciati ad una delle finestre riconobbi Red e sua madre, intenti a scrutare il bosco con le mani racchiuse a coppa ai lati degli occhi. Scesi dal contorto intrico di radici e, dopo essermi fatto strada in mezzo ad un fitto groviglio di erbacce, ripresi la mia ascesa attraversando il campo attiguo. Tenendo gli occhi fissi sul punto in cui mi era sembrato di veder sparire la misteriosa figura, mi trascinai su per il pendio fino a dove l'erba medica lascia di nuovo il posto al granoturco. In pochi minuti raggiunsi il limitare del bosco.

Gli alberi erano più radi e meno robusti e omogenei di quanto apparissero dalla strada. Quando cominciai a correre fra l'uno e l'altro, fu la luce della luna ad indicarmi la via. Qui il terreno era un continuo alternarsi di zone rocciose e di soffici letti di muschio e di aghi di pino. Man mano che mi inoltravo nel bosco, l'intreccio di piante si fece più fitto: ai pini e alle betulle spettrali si sostituirono ben presto olmi e querce centenarie, i cui tronchi screziati erano così spessi da impedire quasi alla luce di filtrare. Rallentai e poi mi arrestai: un confuso fruscio alla mia sinistra attirò la mia attenzione.

Voltai la testa appena in tempo per vedere un cervo in fuga che spiccava un balzo così aggraziato da farmi pensare ad una donna che si tuffa da una piattaforma.

Alison. Mi fiondai alla cieca sulla destra, impacciato nella corsa dai miei stivali pesanti. Alison mi era apparsa e mi aveva lanciato un segnale. Adesso mi stava aspettando nascosta da qualche parte. Da qualche parte nell'oscurità.

 

Trascorse molto tempo e fu solo quando mi ritrovai in una radura circolare, attorniata da alberi molto alti, che ammisi a me stesso di essermi perso. Non perso definitivamente, poiché l'inclinazione del pendio mi permetteva di individuare da che parte si trovassero i campi e la strada, ma sufficientemente disorientato da non capire se fino ad allora avessi girato in tondo. La cosa che più mi seccava, a parte l'esser caduto e rotolato contro un masso coperto di licheni, era il fatto di aver perso qualsiasi cognizione delle direzioni laterali. In quel punto il bosco era troppo fitto per consentirmi di individuare le luci delle fattorie lontane; anzi, a dire il vero, la distanza non sembrava esistere affatto, se non concepita come un'infinita distesa di grandi alberi scuri. Dovevo essere ritornato indietro di circa un chilometro; o forse ero risalito e non tornato indietro; in ogni caso, verso l'alto ero andato senz'altro, perché prima di girare di nuovo a destra ero sceso per un tratto. Era quasi un'ora che camminavo e gli alberi che mi circondavano mi sembravano straordinariamente familiari, come se quella non fosse la prima volta che capitavo in quella zona. Era solo quella piccola radura, con, al centro, le tracce nere di un fuoco spento da tempo, che provava che non avevo continuato a girare in tondo nello stesso posto.

Comunque, quegli alberi io li avevo già visti: avevo già visto la massa gigante del tronco che mi stava dinnanzi; avevo già notato la strana curva descritta da un certo ramo e mi ero inginocchiato su un ceppo del tutto identico a quello su cui ero seduto adesso. Urlai il nome di mia cugina.

A quell'epoca, la mia sola familiarità con il panico e la paura, a cui il primo cedette ben presto il posto, era di natura squisitamente letteraria; si trattava cioè di sentimenti che avevo sperimentato soltanto leggendo le opere di Jack London, di Howthorne, di Cooper, di Shakespeare e dei fratelli Grimm, o guardando i cartoni animati di Walt Disney. Il panico si impadronì di me quando temetti di essermi perso, mentre la paura che mi assalì dopo era legata semplicemente al bosco, alla sensazione di essere circondato da una natura titanica e aliena. Intendo dire che mi sembrava che gli alberi fossero animati da un che di sinistro e che mi sentivo circondato da un'atmosfera maligna: non si trattava soltanto della famosa indifferenza darwiniana della natura, ma di un sentimento di ostilità vera e propria. Era la più primitiva percezione del male che avessi sperimentato in tutta la mia vita: io ero una fragile creatura umana in procinto di essere schiacciata da forze immense, dalle forze di un male enorme e impersonale. Di cui Alison era parte e nel quale mi aveva attirato. Sapevo che se non mi fossi mosso tante orribili mani fatte di piccoli rami mi avrebbero afferrato e sbattuto contro le pietre e i tronchi, e infine mi avrebbero riempito la bocca e gli occhi di muschio. Sarei morto come erano morte le due ragazze di Arden e il lichene mi avrebbe tappato la bocca. Che stupidi erano stati a credere che un essere umano avesse potuto compiere quegli agghiaccianti omicidi!

Alla fine fu il terrore che mi liberò dalla trappola di quello spaventoso incontro con lo spirito: cominciai a correre alla cieca, tuffandomi ovunque scorgessi un varco, attanagliato da una paura assai più grande, scoprii, di quella che avevo provato mentre sfuggivo ai miei inseguitori ad Arden. I rami più bassi mi colpivano allo stomaco, mandandomi a finire lungo disteso sul terreno duro; i miei stivali di cuoio scivolavano sui sassi e i ramoscelli mi si impigliavano nella stoffa dei pantaloni. Le foglie mi ferivano gli occhi, ma io continuavo a correre, a correre senza fermarmi per riprendere fiato, con il cuore che mi martellava in gola e i polmoni in fiamme.

Caddi e ricaddi più volte. L'ultima volta, indugiai a scrutare attraverso l'intrico di piante e di ortiche e vidi che il male non c'era più. Il dio se n'era andato. Fra le fronde filtrava un barlume di luce umana, quella luce che rappresenta la nostra vittoria sull'irrazionale. Mi accovacciai tutto dolorante per vedere da dove provenisse quella luce. Sentivo la lettera di Alison nella tasca della giacca. A poco a poco riacquistai il controllo di me. La luce artificiale è una poesia alla razionalità: la lampadina caccia i demoni, si esprime in distici rimati. In breve il mio corpo prese a tremare di sollievo, come se fossi capitato nei formali giardini di Versailles.

Quando riacquistai la mia abituale lucidità mentale rimpiansi la mia momentanea perdita di fede: avevo tradito Alison e avevo tradito lo spirito. Vi ero stato costretto dalla paura, una paura indotta dalle mie frequentazioni letterarie.

Alla fine, capii dove mi trovavo e riconobbi la casa da cui proveniva la luce: un tremito di felicità mi percorse le membra mentre procedevo fra le querce familiari e amiche.

Lei apparve sulla veranda. Indossava una vecchia giacca da uomo, con le maniche così lunghe che le coprivano interamente le mani, e ai piedi calzava ancora gli stivali di gomma. «Chi c'è là fuori? Miles? Sei tu, Miles?»

«Sì, sono io», risposi. «Mi sono perso.»

«Sei solo?»

«Me lo chiedi tutte le volte.»

«Mi era sembrato di sentire due persone.»

Io la fissai.

«Coraggio, Miles, vieni dentro. Ti verserò una tazza di caffè caldo.»

Quando raggiunsi la veranda, lei mi scrutò con l'occhio buono. «Ma Miles, in che stato sei ridotto? Sei tutto sporco e hai i vestiti strappati.» Poi abbassò lo sguardo. «Dovrai toglierti quegli stivali se vorrai entrare nella mia cucina.»

Mi sfilai delicatamente gli stivali pieni di fango. Il viso e le mani mi dolevano e mi bruciavano in vari punti. Anche la gamba destra mi faceva male: l'avevo sbattuta contro un ramo nello stesso punto dove mi ero ammaccato quando avevo portato la poltrona nella cantina interrata.

«Ma tu zoppichi, Miles! Che cosa diavolo ci facevi lì fuori, al buio di notte?»

Presi posto su una sedia e lei mi mise davanti una tazza di caffè bollente. «Zia Rinn, sei sicura di aver sentito qualcun altro oltre a me nel bosco?»

«Forse era una delle galline. A volte escono e fanno un baccano del diavolo.» Si era appollaiata su una sedia, dalla parte opposta del vecchio tavolo di legno, con i lunghi capelli bianchi che le ricadevano sulle spalle della giacca grigia di tweed. Fili di vapore salivano dalle tazze, prima di dissolversi in misteriosi intrecci biancastri. «Lascia che ti pulisca un po' la faccia.»

«Non ti preoccupare» le dissi, ma lei era già balzata in piedi e stava bagnando un panno sotto il rubinetto dell'acquaio. Poi prese un vaso coperto dallo scaffale e venne verso di me. Il contatto con il panno fresco e morbido mi regalò un piacevole refrigerio.

«Non mi piace doverti dire queste cose, Miles, ma penso che dovresti lasciare la valle. Tu avevi già gravi problemi quando ci venisti la prima volta e ne hai ancora di più adesso. Se proprio sei deciso a restare, voglio che lasci la casa di Jessie e che venga a stare qui da me.»

«Non posso.»

Rinn immerse le dita nel vaso e mi spalmò una spessa poltiglia verde sulle ferite. Mi sentii pulsare tutto il viso. Un'intensa fragranza di bosco mi si impigliò nelle narici. «È solo una mistura di erbe per le tue ferite. Che cosa stavi facendo là fuori?»

«Stavo cercando qualcuno.»

«Cercavi qualcuno nel bosco di notte?»

«Sì, qualcuno ha rotto i vetri della mia macchina e mi era sembrato di vederli fuggire in questa direzione.»

«Ma perché stai tremando?»

«È perché non sono abituato a correre.» Sentivo sul viso le sue dita che continuavano a spalmarmi la poltiglia verde.

«Io posso proteggerti, Miles.»

«Non ho bisogno di protezione»

«E allora perché sei così spaventato?»

«È stato il bosco. Il buio.»

«A volte è giusto aver paura del buio.» Mi guardò con durezza. «Ma non è mai giusto mentire a me, Miles. Tu non stavi inseguendo dei vandali, vero?»

All'improvviso avvertii la presenza degli alberi che si piegavano sopra la casa e l'oscurità che regnava al di fuori del cerchio di luce che emanava la sua persona.

Mi disse: «Devi fare i bagagli e lasciare la fattoria. Vieni a vivere qui, oppure ritorna a New York. O se no, va' da tuo padre, in Florida.»

«Non posso.» Il profumo intenso della mistura di erbe mi riempiva il naso.

«Se resti a casa di Jessie, verrai distrutto. Devi almeno venire ad abitare qui con me.»

Ricominciai a tremare. «Ascolta, zia Rinn. C'è gente che pensa che io abbia ucciso quelle due ragazze. È per questo che se la sono presa con la mia macchina. Che cosa pensi di poter fare contro di loro?»

«Non verranno mai qui. Non si metteranno mai sulla mia strada.» Ricordai il terrore che zia Rinn mi ispirava da bambino, quando mi lanciava certe occhiate e mi parlava con lo stesso tono che stava usando ora. «Quella è gente di città. Non hanno niente a che vedere con noi della valle.»

La minuscola cucina era torrida. Sbirciai la stufa a legna e vidi che stava bruciando a pieno ritmo, come un camino con le fiamme scoppiettanti.

Dissi: «Voglio dirti la verità. Ho sentito qualcosa di mostruoso là fuori. Qualcosa di terribilmente ostile. È per questo che sono spaventato. È come se avessi sentito il male, il male in persona. Ma io lo so, è tutta colpa dei libri che ho letto. La spiegazione è semplice: prima sono stato inseguito da un gruppetto di teppisti per mezza Arden, poi ci ha pensato Orso Polare a mettermi in agitazione. So tutto di questi meccanismi della mente umana. So tutto dei puritani e del loro rapporto con la natura selvaggia e, in qualche modo, queste cose devono avermi preso la mano. Sono stato represso e non sono me stesso.»

«Che cosa stai aspettando, Miles?» mi chiese Rinn e io capii che non potevo più tergiversare.

«Sto aspettando Alison. Alison Greening. Penso che fosse lei la persona che ho visto dalla strada. E l'ho inseguita in mezzo al bosco per raggiungerla. L'ho già vista tre volte.»

«Miles ...» mi ammonì Rinn fissandomi con aria furibonda.

«Non sto più lavorando alla mia dissertazione. Non mi interessa più. Ogni giorno che passa mi accorgo che quella roba è la morte dello spirito e Alison mi ha mandato alcuni segnali per annunciarmi che presto ritornerà.»

«Miles ...»

«Eccone uno.» Estrassi la lettera dalla tasca della giacca e gliela mostrai. «Hovre è convinto che me la sia spedita da solo, ma è stata lei, non è vero? È per questo che la grafia è simile alla mia.»

Rinn stava per riprendere a parlare, ma io alzai una mano per fermarla. «Vedi, a te non è mai andata a genio. Non andava a genio a nessuno, ma noi due siamo sempre stati uguali. Si può dire che eravamo quasi la stessa persona. E io non ho amato nessun'altra donna nella mia vita.»

«Lei ti ha preso al laccio, Miles! Lei stessa era la trappola in cui aspettava che tu cadessi.»

«Allora lo è ancora, ma io non ci credo.»

«Miles ...»

«Ascolta, zia Rinn. Nel 1955 noi abbiamo giurato che un giorno ci saremmo incontrati qui, nella valle e abbiamo fissato una data. Manca solo qualche settimana al nostro appuntamento. Lei verrà e io la vedrò di nuovo.»

«Miles, tua cugina è morta. È morta vent'anni fa e sei stato tu ad ucciderla.»

«Io non ci credo.»

 

CAPITOLO SESTO

 

«Miles», mi disse. «Tua cugina è morta nel 1955 mentre tu e lei nuotavate insieme nella vecchia cava Pohlson. È stata annegata.»

«No, lei è annegata» precisai io. «Verbo attivo. Io non l'ho uccisa. Non avrei mai potuto farlo. Per me lei significava più della mia vita. Piuttosto mi sarei suicidato. Tanto, con la sua morte la mia vita è finita lo stesso.»

«Forse l'hai uccisa senza volerlo. È stata una disgrazia. Forse non sapevi quello che facevi. Io sono solo una vecchia contadina, ma ti conosco. E ti voglio bene. Tu sei sempre stato un ragazzo inquieto; anche tua cugina aveva dei problemi, ma i suoi non erano innocenti come i tuoi. Lei aveva scelto il sentiero impervio, desiderava confusione e male, mentre tu non hai mai commesso quel peccato.»

«Non so di che cosa tu stia parlando. Lei era, non so, più complicata di quanto fossi io, ma questo faceva parte della sua bellezza. Per me, almeno. Nessun altro riusciva a capirla. E io non l'ho uccisa, né volontariamente, né per disgrazia.»

«Ma c'eravate voi due soli quella sera.»

«Questo non è certo.»

«Hai visto qualcun altro?»

«Non lo so. Forse. Mi sembra di sì, diverse volte. Qualcuno mi ha messo fuori combattimento mentre ero sott'acqua.»

«È stata Alison. Voleva trascinarti con sé.»

«Come vorrei che l'avesse fatto. La mia non è stata più vita da allora.»

«Non è stata una vita piena, una vita appagante. E tutto per colpa sua.»

«Smettila!» urlai. Avevo l'impressione che, ad ogni parola, la temperatura aumentasse nella piccola cucina. La poltiglia che avevo sul viso stava cominciando a bruciare. Era chiaro che le mie grida avevano spaventato Rinn, perché adesso sembrava più pallida e più piccola dietro il viso rugoso e la giacca sformata da uomo. Prese a sorseggiare lentamente il suo caffè e io fui sopraffatto da un enorme, triste, inevitabile rimorso. «Scusami. Mi dispiace di aver alzato la voce. Immagino che tu mi voglia bene come si vuole bene ad un passerotto ferito. Mi trovo in una situazione terribile, zia Rinn.»

«Lo so» mi ripose con voce pacata. «È per questo che devo proteggerti. È per questo che devi andartene dalla valle. È troppo tardi per tentare qualsiasi altra cosa.»

«Perché Alison sta per tornare, intendi dire.»

«Se Alison ritornerà come tu dici, allora non c'è niente da fare. E troppo tardi. Lei ti tiene stretto nelle sue grinfie e la presa che ha su di te è troppo grande perché io possa contrastarla.»

«Sia ringraziato il cielo. Perché per me lei significa la libertà. Significa la vita.»

«No, lei significa morte. Lei è quello che hai provato là fuori questa notte.»

«Sono stati solo i miei nervi che mi hanno giocato un brutto tiro.»

«No, è stata Alison. Lei ti reclama.»

«Mi ha già reclamato anni fa.»

«Miles, tu ti stai sottomettendo a forze che non conosci. Nemmeno io le conosco, ma le rispetto. E le temo. Hai pensato a quel che accadrà dopo il suo ritorno?»

«Quello che accadrà non importa. Quello che conta è che lei sarà di nuovo in questo mondo. Lei sa che non l'ho uccisa io.»

«Forse questo non ha importanza, oppure ne ha meno di quanta tu creda. Parlami di quello che è successo quella notte, Miles.»

Abbassai la testa; il mento mi sfiorava il petto. «A che pro?»

«Te lo dico subito. Quello che la gente di Arden ricorda di te è che tu fosti sospettato di omicidio. Tu avevi già una pessima reputazione: sapevano tutti che eri un ladruncolo, che eri un ragazzo strano e che eri incapace di controllare i tuoi sentimenti. Tua cugina era... non saprei come dire... una ragazza a cui piaceva stuzzicare gli uomini con finte provocazioni sessuali. Era corrotta e con quel suo comportamento scioccò la gente della valle. Era una calcolatrice ed era forte... Ho capito che era una persona distruttiva fin da quando era piccola. Lei odiava la vita. Odiava tutto, tranne se stessa.»

«Non è vero.»

«E quella sera voi due andaste a nuotare insieme nella cava, dopo che Alison, ne sono sicura, era riuscita ad ingannare in qualche modo sia tua madre che la sua. Voleva tenderti una trappola ancora più grande. Vedi, Miles, a volte fra due persone può esistere una specie di legame profondo, una specie di voce, una chiamata, e se la persona dominante è corrotta, anche il loro legame è malsano e corrotto.» , «Lascia perdere questa tiritera e arriva al punto.» Sentivo il bisogno di uscire da quella cucina surriscaldata e non vedevo l'ora di rinchiudermi nella vecchia fattoria degli Updhal.

«D'accordo.» Il suo viso era cupo come l'inverno. «Qualcuno che stava passando lungo la strada per Arden ha sentito della urla provenire dalla cava e ha chiamato la polizia. Quando il vecchio Walter Hovre arrivò ti trovò riverso su una roccia: eri privo di conoscenza e avevi il viso sanguinante. Alison era morta. Il suo corpo si era impigliato in uno spuntone di roccia sott'acqua. Eravate tutti e due nudi e lei ... lei era stata violentata.» Rinn cominciò ad arrossire. «La spiegazione sembrò subito chiara a tutti. Era ovvia.»

«Tu che cosa pensi che sia successo?»

«Io penso che ti abbia sedotto e che poi sia morta per una disgrazia. Che sia morta per mano tua, ma che non sia stato un omicidio.» Adesso le sue guance erano color porpora e l'effetto era spaventoso: era come se si fosse messa il fard sui pomelli coperti di rughe. «Io non ho mai conosciuto l'amore fisico, Miles, ma immagino che sia una cosa piuttosto turbolenta.» Sollevò il mento e mi guardò diritto negli occhi. «Questo è quello che pensarono tutti all'epoca. Ma nessuno ritenne che tu dovessi essere incriminato. Anzi, molte donne di Arden dissero che tua cugina aveva avuto quel che si meritava. Il coroner, che allora era Walter Hovre, dichiarò che si era trattato di morte accidentale. Era un uomo di buon cuore e poi anche lui aveva un figlio che gli creava problemi e sapeva che per tuo padre e tua madre sarebbe stato un colpo durissimo: non voleva rovinarti la vita. In più significò molto il fatto che tu fossi un Updhal. La gente di queste parti ha sempre portato molto rispetto per la nostra famiglia.»

«Tu dimmi solo questo» le dissi io. «Perché quando tutti mi condannavano in silenzio, mentre, ipocritamente, mi mettevano in libertà, nessuno si pose il problema di chi aveva fatto quella telefonata?»

«Quell'uomo non lasciò detto il suo nome. Disse che aveva paura.»

«Tu pensi veramente che dalla strada si possa sentire qualcuno che urla su alla cava?»

«Evidentemente sì. E adesso la gente ripensa a questa vecchia storia.»

«Maledizione!» esclamai. «Credi che io non lo sappia? Perfino alla figlia di Duane è già arrivato all'orecchio qualcosa e anche a quell'idiota del suo ragazzo. Io sono legato al mio passato e questa è la ragione per cui sono qui. Ma questa è la mia sola colpa: di tutto il resto sono innocente e, prima o poi, riuscirò a dimostrarlo.»

«Te lo auguro di tutto cuore» disse Rinn. Fuori, il vento faceva frusciare i rami degli alberi e io mi sentivo come un personaggio d'altri tempi, il protagonista di una favola che cerca rifugio in una casa di marzapane. «Ma questo non ti basterà per salvarti adesso.»

«Io lo so quale sarà la mia salvezza.»

«La sola salvezza è il lavoro.»

«Questa è una bella teoria norvegese.»

«Bene, e allora lavora. Scrivi! Aiuta nei campi!»

Sorrisi al pensiero di me e Duane intenti a far fieno l'uno accanto all'altro. «Pensavo che volessi consigliarmi di lasciare la contea. In realtà Orso Polare non vuole che io me ne vada e, comunque, non l'avrei fatto lo stesso.»

Lei mi guardò con disperazione.

«Io non posso scordare il passato, zia Rinn. Tu non puoi capire.» Dopo aver finito la frase, con mia enorme sorpresa, sbadigliai.

«Povero il mio bambino stanco.»

«Sì, sono davvero stanco» ammisi io.

«Dormi qui, questa notte, Miles. Intanto io pregherò per te.»

«No» dissi io automaticamente. «Ti ringrazio.» Poi pensai a tutta la strada che avrei dovuto percorrere per ritornare alla macchina. A quell'ora, probabilmente, la batteria si era già scaricata e avrei dovuto raggiungere la fattoria a piedi.

«Puoi andartene domani mattina presto. Non mi dai alcun disturbo, te lo assicuro.»

«Forse potrei fermarmi per un paio d'ore» dissi e sbadigliai di nuovo. Questa volta feci a tempo, anche se per poco, a portarmi la mano alla bocca. «Sei troppo buona con me.»

La osservai mentre trafficava nella stanza vicina. Dopo pochi minuti ritornò con un paio di lenzuola e un morbido groviglio di coperte fatte a mano. «Vieni con me, giovanotto», mi ordinò e io la seguii nel salottino. Stendemmo insieme le lenzuola sullo stretto sedile del divano. La stanza era appena un po' più fredda della cucina, ma l'aiutai ugualmente a sistemare una coperta sopra il lenzuolo superiore. «Ti avrei offerto volentieri il mio letto, Miles, ma non ci ha mai dormito nessun uomo e adesso sono troppo vecchia per cambiare abitudini. Spero che tu non mi giudichi poco ospitale.»

«Non poco ospitale, ma cocciuta come un mulo.»

«Non stavo scherzando quando ti ho detto che avrei pregato. Hai detto di averla vista?»

«Sì, tre volte. Ne sono sicuro. Lei sta per ritornare, zia Rinn.»

«Una cosa è certa: io non vivrò abbastanza per vederla.»

«Perché?»

«Perché lei non me lo permetterà.»

Per essere una donna sola e sulla soglia dei novant'anni, Rinn sapeva bene come riuscire ad aver sempre l'ultima parola. Uscì, spense la luce della cucina e si ritirò in camera sua, chiudendosi la porta dietro le spalle. Il piccolo salotto immacolato sapeva di legna bruciata, ma immaginai che quell'odore provenisse dalla vecchia stufa della cucina. In camera sua, Rinn prese a a mugugnare ritmicamente, come una vecchia macchina prossima alla morte.

Mi sfilai i jeans e la camicia e mi sedetti sul bordo del divano per togliermi le calze. Quindi, scivolai fra le lenzuola ruvide e piene di rammendi e, dopo pochi secondi piombai in un sonno tranquillo e ininterrotto, il primo da quando avevo lasciato New York.

 

Parecchie ore più tardi fui svegliato da due rumori distinti. Il primo assomigliava ad uno stormire di fronde, ma era così forte che sembrava quasi che i rami si fossero avviluppati intorno alla casa e minacciassero di scuoterla fino alle fondamenta. Il secondo era ancora più inquietante: era la voce di Rinn. Sulle prime pensai che stesse ancora pregando; poi tesi l'orecchio e, dal ritmo lento e insistente delle sue parole, capii che stava parlando nel sonno. In realtà, più che parlare, ripeteva sempre la stessa parola, che tuttavia non riuscivo a comprendere con chiarezza perché si confondeva con il frastuono prodotto dai rami sopra la casa. Rimasi lì al buio con le orecchie ritte. Nella stanza ristagnava l'odore di legna bruciata. Quando finalmente riuscii a capire quello che Rinn stava dicendo, gettai via le coperte e cercai a tentoni le mìe calze: stava ripetendo nel sonno il nome di mia nonna: «Jessie. Jessie.»

Quello era davvero troppo per me. Era la prova evidente di quanto avessi turbato con i miei discorsi la sola persona della valle che fosse disposta ad aiutarmi. Mi vestii in fretta e andai in cucina. Le foglie degli alberi premevano con la faccia inferiore, bianca e venata, contro il vetro della finestra: sembravano tante mani. Ripensai alla mano bianca e carnosa che uno dei miei inseguitori aveva appoggiato contro il finestrino della macchina. Accesi la luce. La voce roca di Rinn continuava ad invocare il nome della sorella. Nella stufa il fuoco era morto, e al posto delle fiamme guizzanti adesso c'era un misero mucchietto di cenere grigia. Mi spruzzai un po' di acqua sul viso e mi accorsi che la poltiglia di erbe che Rinn mi aveva spalmato sulle ferite la sera prima si era seccata. Provai a sciacquarla via, ma senza successo. Allora inserii un'unghia sotto il bordo di una delle croste e la staccai come si stacca una sanguisuga. Una scaglia sottile, di colore marrone cadde nel lavandino. A una ad una le staccai tutte, finché coprirono il fondo del lavabo. Poi, mi avvicinai ad un minuscolo specchio appeso accanto alla porta e piegai le ginocchia per esaminare il mio viso: era affabile e paffuto come sempre e, ad eccezione di alcune chiazze rosa sulla fronte e sulle guance, non presentava altri segni strani.

All'interno di uno scrittoio con alzata avvolgibile, pieno zeppo di documenti relativi alla vendita delle uova, trovai un mozzicone di matita e un pezzo di carta, a cui affidai il seguente messaggio: Un giorno capirai che ho ragione. Tornerò presto per comperare della uova. Grazie di tutto. Ciao, Miles.

Uscii nel cuore della notte, resa viva dal fruscio delle foglie. Attraverso gli stivali imbrattati di fango sentivo le radici nodose degli alberi che si aprivano una breccia nel terreno. Oltrepassai l'alta costruzione, con le finestre simili a quelle dei fumetti, piena di galline addormentate. Poco dopo, il fitto intreccio di alberi sopra la mia testa cedette il posto al cielo aperto. Davanti a me si srotolava la stradina stretta, costeggiata dagli alti fusti del granoturco, di poco più chiari del cielo color indaco. Quando superai il ruscello sentii di nuovo il gracidio delle rane che mi notificavano il confine del loro territorio. Camminavo velocemente, resistendo a fatica alla tentazione di voltarmi a guardare. Se avevo la sensazione che qualcuno o qualcosa mi stesse osservando, si trattava dell'unica stella che risplendeva in cielo, Venere lucifera, che mi inviava la sua luce vecchia di migliaia di anni.

Solo quando la brezza l'aveva già dissipato sui vasti campi di granoturco e di erba medica, mi resi conto che l'odore di legna bruciata mi era rimasto addosso fino al momento in cui, dopo aver percorso circa metà del tragitto che mi separava dalla macchina, mi ero lasciato alle spalle il podere di Rinn.

Venere illumina la mia strada con luce morta da tempo.

Nonna, Rinn, beneditemi entrambe.

Alison, guardami e mostrati ai miei occhi.

Invece, la sola cosa che, dopo un tempo che mi parve interminabile, si palesò davanti a me, fu la sagoma della mia Volkswagen, o meglio qualcosa di più simile al suo cadavere, visto che, di primo acchito, mi fece pensare alle tristi carcasse delle automobili che si vedono arrugginire nei cimiteri delle macchine. Nel chiarore, appena accennato, della notte, il suo profilo deforme la faceva apparire patetica e sinistra come la Casa dei Sogni di Duane. Quando fui più vicino, vidi il lunotto sfondato e le ammaccature sul cofano del motore e sul tetto. Solo dopo un po' mi accorsi che le luci erano spente. Evidentemente, la batteria si era esaurita.

Gemendo aprii la portiera e mi accasciai sul sedile. Mi passai la mano sulle nuove chiazze rosa che mi erano comparse sulla faccia e che adesso cominciavano a pizzicare. «Dannazione!» urlai, pensando a quanto sarebbe stato difficile far venire un carro attrezzi fin lì. Furente, colpii leggermente il clacson con il pugno. Poi abbassai gli occhi sul cruscotto e solo allora vidi che la chiave non c'era più.

«Che cos'è tutto questo chiasso?» gridò un uomo, che stava scendendo dalla stradina in forte pendenza che portava alla fattoria dei Sunderson. Quando attraversò la strada notai che aveva una grande pancia e il viso scialbo e cupo. L'appendice piccola e tozza che gli faceva da naso, tradiva una stretta parentela con Tuta Sunderson. Come tutti gli uomini che, al pari suo, vengono soprannominati "Rosso", aveva i capelli di un colore arancione opaco, vagamente tendente al tabacco. Quando raggiunse la macchina, appoggiò una mano enorme sulla portiera aperta. «Perché diavolo stai suonando quel dannato clacson?»

«Perché sono contento. Anzi, felice, felicissimo. Ho la batteria scarica e non trovo più neanche la chiave: sarà finita chissà dove in quel fosso. Poi, come avrai notato, questa sera alcuni gentiluomini di Arden hanno deciso di rifarmi la carrozzeria. Direi che ho ben più di un buon motivo per suonare il clacson.»

Fissai la sua faccia terrea e mi parve di scorgervi una vaga espressione di contentezza.

«Non mi hai sentito prima, quando ti ho chiamato? Quando sei schizzato fuori da questa carriola e ti sei messo a correre in mezzo al bosco?»

«Certo che ti ho sentito, ma non avevo tempo da perdere.»

«Be', io ho aspettato qui sulla veranda per vedere se tornavi. Poi, ad un certo punto mi sono addormentato ... Non pensavo che saresti stato via così tanto. In ogni caso, ho pensato che fosse meglio togliere le chiavi e spegnere le luci per non consumare la batteria.»

«Grazie infinite, Red. Dico sul serio. Però adesso ridammi le chiavi, per favore, così possiamo andare a dormire tutti e due.»

«Aspetta un momento. Che cosa ci sei andato a fare in mezzo al bosco? O stavi forse scappando da me? Una cosa è certa: correvi come una lepre. Volevi svignartela? Hai combinato qualcosa e cercavi di farla franca, eh Miles?»

«Vedi, Red, non saprei come spiegarti. Comunque non stavo affatto cercando di svignarmela, come hai detto tu.»

«Mmm.» C'era una nota caustica nella sua voce. «La mamma dice che fai delle cose molto strane su dagli Updhal. E dice anche che la figlia di Duane gira per casa tua più di quanto dovrebbe. Soprattutto visto quello che è successo nella valle in questi ultimi giorni. A te è sempre piaciuto far del male alle ragazze, vero Miles?»

«No e non l'ho mai fatto. Mi hai già fatto perdere fin troppo tempo, Red, quindi tira fuori alla svelta le mie chiavi.»

«Che cosa c'era di tanto bello che ti attirava nel bosco?»

«Okay Red, ti dirò la verità. Sono andato a trovare Rinn. Se vuoi la conferma puoi andarglielo a chiedere di persona. C'è altro che vuoi sapere?»

«Scommetto che tu e quella vecchia strega state macchinando qualcosa.»

«Puoi scommettere tutto quello che vuoi, purché mi lasci andare a casa.»

«Questa non è casa tua, Miles. Però penso che tu possa ritornare su da Duane. Ecco qui le chiavi di questo rudere che chiami macchina.» Mi porse il mazzo di chiavi infilando il robusto medio teso nell'anello, in modo che tanto l'anello che le chiavi apparivano così piccoli da sembrare giocattoli. Quel gesto era volutamente minaccioso e osceno.

 

Dalla deposizione di Leroy ("Red") Sunderson:

16 luglio

Mi rodevo il fegato al pensiero che la mamma lavorasse nella stessa casa in cui viveva quel Miles Teagarden ... Dico la verità, se fossi stato al posto di Duane, non avrei permesso a mia figlia di ronzare attorno ad un uomo con quella reputazione. Io l'avrei cacciato via subito, con una bella scarica di pallini. Così, quando ho visto la sua macchina che rallentava sotto casa mia, ho pensato, aspetta che vado a vedere che cosa vuole. Be', Miles è saltato giù dall'auto e si è messo a guardare verso il bosco come se avesse visto qualcosa. Poi ha cominciato a correre come se avesse alle calcagna il diavolo in persona. Allora io gli ho urlato dietro, ma lui ha continuato a correre.

Secondo me ci sono solo due spiegazioni: o aveva una fretta dannata di raggiungere qualcosa che aveva visto in mezzo agli alberi oppure stava fuggendo lontano da me. Secondo me sono vere tutte e due. Perché posso assicurarvi che quando è tornato aveva una paura boia del sottoscritto. E questo significa che stava macchinando quello che poi è successo in mezzo al bosco, capite?

Io mi sono detto, Red, tu aspettalo. Prima o poi ritornerà. Così sono sceso e ho spento le luci di quel vecchio catorcio e l'ho aspettato. Per un po' io e la mamma l'abbiamo cercato, poi, quando lei è andata a letto, io mi sono sdraiato nella veranda. Mi ero preso dietro le chiavi della macchina, così ero sicuro che non sarebbe potuto andare da nessuna parte senza che io lo sapessi.

Be', parecchio tempo dopo, è tornato. Col passo leggero. Sciolto che pareva un'oca. Sapete, camminava come un negro di città. Quando mi sono avvicinato stava trafficando in macchina, imprecando e suonando il clacson. Poi l'ho visto in faccia: sembrava tutto bruciato o qualcosa del genere: aveva tutta la pelle piena di chiazze rosse. Be', insomma, mi ha fatto venire in mente com'era Oscar Johnstad, quando si è avvelenato con l'alcol qualche anno fa. Forse qualcuno l'aveva graffiato.

Allora io gli ho detto, dove diavolo sei stato Miles?

Sono stato a divertirmi, mi ha risposto lui.

In mezzo al bosco? gli ho chiesto io.

Sì, mi fa lui. Ci sono andato per divertirmi. Sono stato a trovare Rinn.

Come facciamo a sapere che cosa avevano in mente quei due? Ogni tanto quei vecchi norvegesi delle valli fanno cose strane. Anch'io sono norvegese e non voglio dir male di nessuno, però, ogni tanto, qualcuno dei vecchi dà fuori di matto. E quella Rinn lì è sempre stata matta, com'è vero Iddio. Era la sola persona amica su cui Miles poteva contare qui. Vi ricordate del vecchio Ole, quello che abitava giù a Four Forks? Be', era amico di metà della gente della valle, compreso me, e quando ha cominciato a perdere i colpi, ha legato quell'imbecille di sua figlia ad una trave della soffitta e ha cominciato a usare quell'altra figlia come moglie. La domenica, quando veniva in chiesa per le funzioni, rimaneva sempre in fondo, con la faccia torva e smarrita, come se ci fosse capitato per caso. Tutto questo è accaduto ventitré anni fa, ma da allora di cose strane ne sono continuate a succedere. Io non mi sono mai fidato di Rinn. Solo a guardarla ti metteva la paura addosso. Alcuni dicono che Oscar Johnstad avesse cominciato a bere forte perché Rinn aveva fatto il malocchio a una della sue giovenche e lui aveva paura che la volta dopo sarebbe toccata a lui.

L'altra cosa a cui dovete pensare è Paul Kant. E stato subito dopo la storia del bosco, non più di un paio di giorni dopo, che Miles è andato a trovare Paul. E poi ha cercato di uccidersi.

Io penso che volesse farla finita, in fretta. Forse è stata Rinn a dirgli di farlo, pazza com'era. Forse gliel'ha detto anche il povero Paul. Be', se non l'ha fatto, di sicuro poi se ne è pentito.

Voi capite, io mi sento molto coinvolto in tutta questa storia: sono stato io a trovare il corpo di quella povera Strand e quel giorno mi avete interrogato per due ore. Per poco non ho vomitato quando l'ho vista. Ho capito subito che doveva esserle accaduto qualcosa di fuori dal normale. Era quasi squarciata in due. Be', eravate lì anche voi e l'avete vista.

Così quando scoprimmo dell'altra, mi telefonò uno di quelli dell'Angler's Bar per dirmi dell'idea della macchina. Giusto, gli dissi io, sono d'accordo. Vi darò tutto l'aiuto di cui avrete bisogno. Voi cominciate giù in città che quassù ci penso io.

 

Quando, finalmente, raggiunsi il vialetto che porta alla fattoria, avevo il viso in fiamme. Gli occhi mi lacrimavano e mi sentivo prudere tutta la pelle. Lasciai la macchina subito dietro la fila di noci e attraversai diagonalmente il prato, tenendo premuto contro il volto il palmo della mano sana: mi procurava una gradevole sensazione di refrigerio e di lenimento come l'acqua. Ma non era solo la mia pelle che bruciava. Anche l'aria della notte sembrava caldissima e fatta di milioni di aghi pungenti. Camminavo lentamente, in modo che le folate d'aria torrida e gelatinosa non mi scorticassero il viso.

Quando giunsi in prossimità della casa, tutte le luci si accesero contemporaneamente. Sembrava una barca da crociera sospesa sull'acqua nera, ma io sentii un brivido serpeggiarmi lungo la schiena. Abbassai la mano dal viso e avanzai lentamente verso la veranda. Nel campo, alla mia sinistra, la giumenta cominciò a nitrire e ad impennarsi. Per un attimo temetti di vedere sobbalzare il pomello metallico della porta e quasi rimpiansi di non trovarmi ancora su quel letto di fango sotto i grandi alberi scuri.

Attraversai la veranda prestando l'orecchio ai rumori. Mi voltai e, attraverso la rete della porta a zanzariera vidi la sagoma della giumenta che si alzava sulle zampe posteriori, mettendo in fuga le mucche ammutolite. Poi aprii di scatto la porta che immetteva nel salotto e guardai all'interno: era vuoto. Vuoto e freddo. I vecchi mobili erano sistemati a casaccio, ma ispiravano un ordine perfetto, anche se ancora non definito.

Tutte le luci, attivate da un unico interruttore che si trovava accanto alla porta, erano accese. Provai l'interruttore. Fuori, la giumenta aveva smesso di nitrire. Le luci si spensero e poi si riaccesero; apparentemente, dunque, era tutto in ordine.

In cucina, il lampadario illuminava il lavoro di Tuta Sunderson: non c'era più il piatto di cibo freddo sul tavolo e le stoviglie sporche erano state lavate e rimesse nella credenza. Provai l'interruttore: anche quello funzionava normalmente.

La sola spiegazione era che ci fosse stato qualche strano contatto. Nel momento stesso in cui il mio cervello formulò questa conclusione, mi resi conto che in salotto c'era qualcosa fuori posto, qualcosa di importante. E che la pelle del mio viso continuava a risentire dolorosamente del contatto con l'aria. Ritornai in cucina, lasciai scorrere l'acqua del rubinetto e poi me la spruzzai delicatamente sulla fronte e sulle guance. A poco a poco, la sensazione di calore e di irritazione si attenuò. L'unico sapone a portata di mano era un detersivo per i piatti: mi riempii la mano destra di liquido verde e lo spalmai sul viso. Mi fece l'effetto di un balsamo. Il prurito scomparve. Mi risciacquai delicatamente la pelle, che adesso sentivo tirare da tutte le parti, come una tela nella cornice.

Apparentemente, quella sensazione, peraltro temporanea, di sollievo, mi rese più acuto, perché, quando ritornai in salotto, capii immediatamente quale fosse la nota stonata che, senza rendermene conto, mi aveva colpito appena entrato: la famosa fotografia del 1955 in cui Alison ed io eravamo ritratti mano nella mano non era più al suo posto sul muro; qualcuno l'aveva spostata. Mi guardai attorno attentamente: non era stato toccato nient'altro. Chiunque l'avesse fatto, aveva commesso un atto di indicibile violazione, di stupro della mia privacy. Mi precipitai nella vecchia camera da letto dei nonni.

Tuta Sunderson si era data da fare, non c'era che dire. Aveva rimesso tutte le foto che io avevo sparpagliato sul pavimento nel forziere e vi aveva ammucchiato accanto le schegge di legno. Mi inginocchiai, sollevai il coperchio che avevo rotto con il piede di porco e mi trovai davanti il muso imbronciato di Duane che mi guardava torvo. Richiusi gentilmente il forziere. Il vaso di Pandora.

A meno che qualcuno non l'avesse rubata, c'era solo un posto in cui poteva essere finita la fotografia e fu lì che la trovai. Anzi, mentre salivo la stretta rampa di scale che portava al primo piano, fui folgorato dalla consapevolezza del luogo esatto in cui dovevo cercarla: sulla mia scrivania, appoggiata al muro, accanto al ritratto di Alison bambina.

E io sapevo, se mai si può dire di conoscere l'inconoscibile, chi ce l'aveva messa.

 

Seguendo quella che, dal giorno del mio arrivo, sembrava diventata una regola fissa, anche quella notte il mio sonno fu interrotto da una sequenza di sogni sconcertanti, di cui, però, la sola cosa che riuscii a ricordare quando mi destai - troppo tardi, mi accorsi subito, per vedere i due amanti che si separavano sulla strada e Alison che, sfoggiando sorprendenti doti atletiche, rientrava in camera sua attraverso la finestra - fu che mi avevano indotto a bruschi risvegli. Ma si sa, quando si dimenticano, gli incubi perdono l'aura di terrore che li accompagna. Così, forse anche per questo motivo, il mattino seguente mi svegliai affamato come un lupo, cosa che non accadeva da parecchio tempo e che interpretai come segno di una salute ritrovata.

Ero certo che fosse stata Alison Greening a spostare la fotografia, proprio come se l'avessi vista con i miei occhi, e quando appresi che aveva indotto qualcun altro ad agire per suo conto, la mia convinzione non ne venne minimamente scalfitta.

«Non le è dispiaciuto che abbia spostato quella foto, vero?» mi domandò la signora Sunderson quando scesi per la colazione. «Ho pensato che visto che aveva già quell'altra le volesse tenere tutte e due insieme. Per il resto non ho toccato niente delle sue cose. Ho solo appoggiato il ritratto sul tavolo.»

Io la guardai sbalordito. Stava agitando le braccia grasse e flaccide sopra una padella per friggere. Le fiamme guizzavano bluastre e il condimento schizzava da tutte le parti. Il suo viso, accigliato, esprimeva caparbia ostinazione.

«E perché l'ha fatto?»

«Per via dell'altra foto, come le ho appena detto.» Stava mentendo: lei aveva agito per conto di Alison, anche se era chiaro che, personalmente, non le era mai piaciuta l'idea di doversi vedere davanti quell'istantanea tutte le volte che puliva il salotto.

«Che cosa ne pensa di mia cugina? Se la ricorda?»

«Niente da dire.»

«Significa che non ne vuole parlare?»

«No. Il passato è passato.»

«In un certo senso» dissi io e scoppiai a ridere. «Solo in un certo senso, mia cara.»

Il "mia cara", la fece voltare verso di me con occhi dilatati e increduli. Attimi di perplessità e di silenzio, mentre le uova friggevano sul gas.

«Perché ha strappato la fotografia della figlia di Duane? L'ho vista quando ho messo in ordine nella vecchia camera da letto.»

«Non so di che cosa stia parlando» risposi io. «Ah, sì, adesso ricordo. Non so come sia accaduto. Devo averlo fatto sopra pensiero, una specie di riflesso inconscio.»

«Già, perché no?» commentò versandomi le uova nel piatto. «Penso che si potrebbe dire altrettanto di quello che è capitato alla sua macchina.»

 

Due ore dopo, mentre, sul piazzale di cemento dell'unico distributore di Arden, attendevo che un giovanotto tarchiato di nome Hank valutasse i danni della mia VW, sentivo ancora in bocca il sapore di quelle uova.

«È proprio un bel casino,» fu il responso del meccanico. «Mi auguro che lei sia assicurato. In ogni caso, non c'è nessuno qui che sia in grado di riparare quelle ammaccature. E in più è una macchina straniera, per cui per avere i pezzi di ricambio, il parabrezza, il fanale e il coprimozzo, bisognerà aspettare un bel po'. A torta finita le verrà a costare un occhio.»

«Ma non bisogna mica farli venire dalla Germania» gli spiegai. «Ci sarà pure un concessionario Volkswagen qui nei dintorni.»

«Forse» convenne il ragazzo controvoglia. «Mi pare di aver sentito dire che ce n'è uno da qualche parte, ma non ricordo dove esattamente. E adesso qui siamo pieni di lavoro. Sa, stiamo raddoppiando il distributore.»

Girai la testa e osservai la stazione di servizio: era deserta.

«Non si vede ancora tutto» si affrettò a spiegarmi Hank in tono di difesa.

«Veramente io non vedo proprio niente.» Mi venne in mente che anche l'amante polacco della fidanzata di Duane doveva aver lavorato lì. «Forse questo le sarà di incentivo per inserire la riparazione della mia auto fra tutti i suoi impegni» dissi allungandogli dieci dollari.

«Lei abita qui?»

«Lei che cosa pensa?» Per tutta risposta ricevetti un'occhiata glaciale.

«Sono qui solo di passaggio e ho avuto un incidente. Senta, lasci perdere le ammaccature, non sono così importanti. Mi basta solo che cambi il parabrezza e il faro. Be', già che c'è dia anche uno sguardo al motore per vedere se è tutto in ordine. Ultimamente non andava troppo bene.»

«Okay. Che nome devo segnare sulla ricevuta?»

«Greening. Miles Greening.»

«È un nome ebreo?»

Il giovanotto si separò con riluttanza da una delle macchine che il garage noleggiava ai clienti, una Nash del 1957 con lo sterzo lento. Dopo aver affittato l'auto, mi diressi verso il centro di Arden e, quando decisi di proseguire a piedi, mi premurai di parcheggiarla in una zona dove le case mi sembravano moderatamente signorili.

Un'ora e mezzo dopo mi trovavo nel salotto di Paul Kant. «Venendo qui tu ti metti nei guai e metti nei guai anche me» mi disse Paul. «Io ti avevo avvertito e tu avresti fatto meglio a darmi retta. Non mi fraintendere: io ti sono riconoscente per la tua amicizia, ma ci sono solo due persone che la brava gente di qui pensa che possano aver commesso quei crimini orrendi: te e il sottoscritto, e adesso siamo qui insieme. Che bellezza! Be', se tu non hai paura, dovresti cominciare ad averne perché io sono terrorizzato. Se accade ancora qualcosa, a qualche ragazzina intendo, io sono un uomo morto. Lo sai? La notte scorsa hanno preso a mazzate la mia macchina, come per dirmi, guarda che ti teniamo d'occhio.»

«Hanno riservato lo stesso trattamento anche alla mia. E li ho visti mentre distruggevano la tua, ma in quel momento non sapevo a chi appartenesse.»

«E così eccoci qui tutti e due in attesa che accada il peggio. Ma perché non te ne vai finché sei in tempo?»

«Per parecchi motivi. Uno è che Orso Polare mi ha chiesto di restare fino a quando non sarà tutto finito.»

«Per via della storia di Alison Greening?»

Annuii.

Trasse un profondo sospiro, troppo grande per il suo fisico minuto. «Ma certo. Non c'era neanche bisogno che te lo chiedessi. Come vorrei che i miei peccati risalissero ad un passato così lontano come i tuoi!» Io lo guardai sorpreso e vidi che cercava di accendersi una sigaretta con le mani che gli tremavano. «Non ti ha messo in guardia nessuno contro il rischio che correvi nel venire a trovarmi? Sai, io sono un soggetto famigerato.»

«Ergo il rituale.»

«Sono secoli che ad Arden nessuno pronuncia una parola come ergo, ma sì, ergo il rituale.»

Ero arrivato a casa di Paul passando dalla Main Street, dove mi ero fermato in un negozio per acquistare un giradischi portatile. Quando il commesso aveva letto il mio nome sull'assegno, l'aveva preso ed era scomparso nel retrobottega.

Mi rendevo conto che la mia presenza aveva suscitato la curiosità degli altri clienti, i quali fingevano di non guardarmi, ma si muovevano con l'eccessiva noncuranza di chi, al contrario, si sforza di cogliere ogni minimo dettaglio. Dopo un po' il commesso era ritornato in compagnia di un signore in abito marrone e cravatta sintetica che, con fare visibilmente agitato, mi aveva informato che non potevano accettare il mio assegno.

«Perché no?»

«Vede, Signor Teagarden, questo assegno è tratto su una banca di New York.»

«E con ciò? Anche a New York si usano i soldi.»

«Il fatto è che noi accettiamo solo assegni su piazza.»

«Immagino che per le carte di credito il problema non sussista. Non rifiutate le carte di credito, vero?»

«No, di solito no.»

Avevo estratto dal portafoglio una lunga sfilza di carte di credito. «Quale preferisce? Mastercharge, American Express? Diner's Club? Mobil? Sears? Prego, a lei la scelta. Firestone?»

«Non è necessario, signor Teagarden. In questo caso ...»

«In questo caso che cosa? Le carte di credito valgono come la moneta sonante, o mi sbaglio? Eccogliene un'altra, la Bankamericard. Scelga lei.»

A quel punto gli altri clienti avevano smesso di fingere di non ascoltare, anzi alcuni minacciavano di avvicinarsi per ficcanasare meglio. Dopo un po' l'impiegato si era risolto ad accettare la Mastercharge, come avevo previsto, poi era scomparso sul retro per prendere uno stereo portatile e infine aveva adempiuto alla solita trafila dell'addebito sul mio conto corrente attraverso la carta di credito. Quando era ritornato al bancone per consegnarmi il pacco, aveva il viso imperlato di sudore.

Dopo essere uscito dal negozio avevo dato un'occhiata ai dischi in vendita da Zumgo's e al Coast-to-Coast, ma senza trovare niente che potesse servirmi per creare l'ambiente-Alison. In una piccola cartoleria, nell'isolato dopo Freebo's, però, avevo trovato alcuni dei libri che piacevano a mia cugina: Lei, La Guardia Bianca, Kerouac, St. Exupéry. Li avevo comprati pagando in contanti: ormai avevo definitivamente vinto la mia battaglia contro il mio vecchio vizio infantile.

Terminati gli acquisti avevo depositato i pacchi nella Nash, dopodiché ero ritornato sui miei passi ed ero entrato da Freebo's.

«Posso fare una telefonata?» Il proprietario mi aveva guardato con espressione sollevata e mi aveva indicato un telefono a monete situato in un angolo del locale. Dal suo comportamento avevo intuito quello che stava per dirmi prima ancora che aprisse bocca.

«Signor Teagarden, lei è stato un buon cliente di questo bar da quando è arrivato in città. Ma ieri sera sono venute a trovarmi alcune persone e mi chiedevo se ...»

«Se potevo stare alla larga dal suo locale? Se potevo andare a fare gli affari miei da qualche altra parte?»

Freebo era troppo imbarazzato per annuire.

«Che cosa hanno minacciato di fare? Di rompere le vetrine? Di dar fuoco al bar?»

«No, niente del genere, ma ...»

«Ma lei preferirebbe che io non venissi più.»

«Magari solo per una settimana, o un paio di giorni. Non ho niente di personale contro di lei, signor Teagarden. Ma alcuni di loro hanno deciso ... be', forse sarebbe meglio aspettare di vedere come andrà a finire.»

«Non si preoccupi, non ho alcuna intenzione di crearle dei problemi.» Mi ero subito premurato di tranquillizzarlo.

Lui si era voltato, incapace di continuare a guardarmi negli occhi. «Il telefono è là nell'angolo.»

Dopo aver verificato il numero sull'elenco, avevo chiamato Paul. Mi aveva risposto una voce che sembrava provenire dall'oltretomba. «Smettila di nasconderti» gli dissi. «Sono qui ad Arden e sto venendo a trovarti per parlare di quello che ci sta succedendo.»

«Ti prego, non venire» mi implorò lui.

«Tu non mi devi proteggere. Io volevo solo avvisarti. Se non vuoi che la gente tragga delle conclusioni vedendomi bussare alla tua porta, allora non mi aprire. Ma io devo scoprire che cosa sta succedendo.»

«So che verrai anche se io ti dico di no.»

«Esatto.»

«Allora almeno evita di parcheggiare davanti a casa mia e di entrare dalla porta principale. Lascia la macchina nel vicolo fra Commerciai Street e la Madison e poi prosegui a piedi fino in fondo in modo da arrivare sul retro della casa. Ti lascerò aperta la porta di servizio.»

E adesso, seduto davanti a me in un salotto buio e squallido, mi stava dicendo di essere un soggetto famigerato. Aveva lo stesso aspetto che uno immagina abbiano i pazienti dei casi clinici di Freud: spaventato, il corpo rimpicciolito e curvo, il viso prematuramente invecchiato. La camicia bianca recava i segni di una sporcizia di troppi giorni; la testa era piccola e di foggia scimmiesca. Quando eravamo ragazzi Paul Kant irradiava intelligenza e sicurezza di sé e fra le persone della mia età era quella che rispettavo di più in tutta Arden. D'estate, quando Alison non era alla fattoria, io passavo metà del mio tempo a fare il diavolo a quattro con Orso Polare e metà a parlare con Paul. Lui leggeva molto. Sua madre era inferma e Paul aveva quel modo di fare adulto, responsabile e piuttosto libresco che hanno tutti i bambini che devono prendersi cura dei loro genitori. O di un genitore, come nel suo caso, dal momento che suo padre era morto. Date le premesse, ero sempre stato convinto che un giorno Paul avrebbe vinto una borsa di studio e che se ne sarebbe andato da Arden, dimenticando la grettezza dei suoi concittadini e la sua infanzia infelice. E invece l'avevo ritrovato lì, prigioniero di una casa squallida e umida, e con l'aspetto di una persona più vecchia di dieci anni. Se mai il suo sguardo irradiava ancora qualcosa, si trattava soltanto di amarezza e di colpevole inettitudine.

«Da' un'occhiata fuori dalla finestra» mi disse. «Ma cerca di non farti vedere».

«Perché, c'è qualcuno che ti sorveglia?»

«Tu guarda e basta.» Spense la sigaretta e ne accese subito un'altra.

Io scostai leggermente la tendina e sbirciai fuori.

A circa metà dell'isolato, un uomo grande e grosso, della stessa risma di quelli che mi avevano preso a sassate davanti a Freebo's, se ne stava seduto sul paraurti di un camion rosso e guardava in direzione della casa di Paul.

«Sta lì tutto il giorno?»

«Non è sempre lo stesso. Fanno i turni. Penso che siano in cinque o in sei.»

«Li conosci?»

«Certo che li conosco, vivo qui.»

«E non puoi fare nulla?»

«Che cosa mi consigli? Di telefonare al nostro amato capo della polizia? Quelli sono suoi amici. Lo conoscono meglio di me.»

«E che cosa fanno quando esci?»

«Io esco di rado.»

I muscoli del suo viso si contrassero e profonde rughe di ironia gli solcarono la pelle. «Immagino che mi seguano. A loro non importa che io li veda. Anzi, vogliono che io li veda.»

«Li hai denunciati per i danni alla tua macchina?»

«E perché mai? Hovre lo sa benissimo.»

«Ma per Dio, che cosa significa tutto questo?» sbottai. «Che cos'è tutto questo fuoco contro di te?» Paul scrollò le spalle e sorrise nervosamente.

Ma io credevo di aver capito. Era la prima cosa a cui avevo pensato quando Duane mi aveva consigliato di lasciarlo perdere: da una persona con una storia di repressione sessuale come la sua, era logico aspettarsi che reagisse prontamente di fronte ad un minimo indizio di anormalità sessuale. E in una città come Arden era altrettanto immaginabile che la gente conservasse una mentalità di tipo ottocentesco riguardo all'omosessualità.

«Diciamo semplicemente che io sono un po' diverso, Miles.»

Mi infuriai. «Ma Cristo! Oggi non ci sono più diversi! Se intendi dire che sei gay, be' allora è solo qui, in un buco dimenticato da Dio e dagli uomini come Arden, che questo può crearti dei problemi. Tu non devi lasciarti spaventare. Avresti dovuto lasciare questa città di merda anni fa.»

Credo di aver capito allora per la prima volta che cosa sia un sorriso debole. «Io non sono un tipo coraggioso, Miles» mi disse. «Io non potrei vivere in un posto diverso da Arden. Ho dovuto lasciare la scuola per prendermi cura di mia madre e quando lei è morta mi ha lasciato questa casa.»

Il salotto sapeva di polvere, di umidità e di marcio. Paul invece non aveva alcun odore. Era come se non fosse lì, o come se fosse presente in una sola dimensione. Mi disse: «Io non sono mai stato quello che tu credi. Credevo di esserlo, e immagino che anche gli altri lo pensassero. Ma qui le opportunità sono piuttosto scarse.» Mi rivolse di nuovo quel mezzo sorriso scialbo e auto-derisorio, che consisteva nel semplice innalzamento degli angoli della bocca. Sembrava un animale rinchiuso in una gabbia.

«E allora sei rimasto qui e ti sei rassegnato al lavoro che ti offriva Zumgo's e a sopportare in silenzio le malignità dei tuoi vicini?»

«Tu non sei me, Miles. Tu non capisci.»

Lasciai vagare lo sguardo per la stanza, piena di vecchi mobili da signora. Sedie bitorzolute e scomode con poggiacapo; statuette di ceramica da quattro soldi; cani e pastorelle, paccottiglia semplice e patetica. Ma nessun libro.

«No» dissi io.

«In realtà tu non vuoi nemmeno che io mi confidi con te. Sono tanti anni che non ci vediamo più.» Spense la sigaretta e si grattò la testa piena di riccioli neri.

«No, a meno che tu non sia colpevole» replicai io, che, a poco a poco venivo contagiato dall'atmosfera di angosciarne disperazione che regnava nel salotto.

Immagino che il suono che uscì dalle sue labbra dovesse venire interpretato come una risata.

«Che cosa hai intenzione di fare? Aspettare che irrompano in casa tua e che facciano qualunque cosa gli salti in mente di fare?»

«No. Intendo solo aspettare che il caso venga risolto. In fondo, aspettare è la cosa che mi riesce meglio. Forse, quando avranno catturato il colpevole, mi ridaranno il mio posto da Zumgo's. Tu, invece, che cosa pensi di fare?»

«Non lo so» ammisi amaramente. «Speravo che avremmo potuto aiutarci a vicenda. Ma se fossi al tuo posto sgattaiolerei nottetempo dalla porta di servizio e me ne andrei a Chicago o da qualsiasi altra parte fino a quando non sarà tutto finito.»

«La mia macchina non funziona, ma anche se funzionasse, mi riacciufferebbero nel giro di un paio di giorni.» Mi rivolse di nuovo un sorriso spettrale. «Lo sai, Miles? Io quasi lo invidio quell'uomo. L'assassino, intendo. Sì, perché tutto sommato non ha avuto paura di fare quello che ha fatto. Naturalmente è una bestia, un maniaco immagino, ma comunque è andato fino in fondo: ha fatto quello che doveva fare. Non ti sembra?» La piccola faccia da scimmia mi fissò senza mutare quel suo sorriso da morto. Mescolato all'odore della polvere e a quello dei mobili, avvertii il puzzo acre di fiori marci.

«Come Hitler. Lo sai? Tu dovresti parlare un po' con Zack.»

Paul mutò improvvisamente espressione. «Lo conosci?»

«Sì, l'ho visto una volta.»

«Se fossi in te, io gli starei alla larga.»

«Perché?»

«Può nuocerti. Potrebbe nuocerti, Miles.»

«È il mio più grande ammiratore» dissi ridendo. «A quanto pare, gli piacerebbe essere come me.»

Paul scrollò le spalle. L'argomento non lo interessava più.

«Ho l'impressione di stare perdendo il mio tempo» ripresi io.

«È proprio così.»

«Comunque, se avessi bisogno di aiuto puoi sempre venire su da me, alla fattoria Updhal. Farò tutto quello che potrò.»

«Tu non puoi aiutare me e io non posso aiutare te, Miles.» Mi fissò con sguardo assente. Era chiaro che non vedeva l'ora che io me ne andassi. Dopo un po' parlò di nuovo. «Quanti anni aveva tua cugina quando è morta?»

«Quattordici.»

«Povero Miles.»

«Povero Miles un corno» gli risposi io e me ne andai lasciandolo seduto sul divano avvolto in una spirale di fumo.

 

Fuori, l'aria calda sapeva incredibilmente di fresco. Io avevo i muscoli del petto contratti, paralizzati da un'emozione troppo complessa per poter essere descritta. Scendendo i gradini di legno che immettevano nel minuscolo cortile inspirai profondamente. Mi sembrava perfino di sentire il rumore della vernice che si staccava da quella casa senza speranza. Guardai attentamente a destra e a sinistra, ben sapendo che se qualcuno mi avesse visto per me sarebbe stata la fine. Fu allora che notai un particolare che prima mi era sfuggito. In un angolo del cortile, vicino allo steccato, c'era un canile vuoto che, come la casa, dimostrava di avere un disperato bisogno di una mano di tinta. Dall'apertura usciva una catena che poi si perdeva fra le erbacce e i cespugli che crescevano vicino alla recinzione. La catena sembrava tesa. Sentii i peli della nuca rizzarsi e la mia pelle divenne improvvisamente sensibile al contatto con la stoffa della camicia. Non volevo guardare, ma dovevo farlo. Attraversai il prato morente. Era sdraiato in mezzo all'erba, con la catena attorno a quello che restava del suo povero collo; i vermi brulicavano sulla sua carcassa come una coperta sudicia.

Sentii la tensione dei miei muscoli decuplicarsi e mi allontanai correndo. Continuai a vedere quella cosa orribile anche quando le ebbi voltato le spalle. Oltrepassai il cancello e risalii il vicolo a passo svelto. Quella visita era stata tempo sprecato e la sola cosa che desideravo era andarmene.

Quando giunsi a meno di cinquanta metri dalla fine della viuzza, un'auto della polizia svoltò nella mia direzione, bloccandomi il passaggio. Al volante c'era un agente grande e grosso, che si piegò in avanti per mettermi a fuoco. Io ero in piena luce, perfettamente visibile. Istantaneamente, fui sopraffatto da un immotivato senso di colpa e mi girai di lato per controllare l'estremità opposta del vicolo che era libera. Quando voltai di nuovo la testa, vidi che il poliziotto mi faceva segno di avvicinarmi. Mi avviai verso la macchina, ripetendo a me stesso che non avevo fatto niente.

Quando giunsi più vicino, mi accorsi che l'uomo in uniforme era Orso Polare. Aprì la portiera dal lato del passeggero e, con un gesto circolare dell'indice, mi invitò a prendere posto accanto a lui. «Non è stata certo un'idea delle più geniali» mi disse senza nemmeno salutarmi. «Pensa se qualcuno ti avesse visto. Io non voglio che tu finisca da qualche parte con la testa fracassata.»

«Come sapevi che ero qui?»

«Diciamo che l'ho immaginato.» Mi guardò con espressione gentile, quasi paterna, che suonava genuina quanto un occhio di vetro. «Circa un'ora fa ho ricevuto una telefonata dal meccanico che lavora giù al distributore, tale Hank Speltz. Era tutto agitato. Sembra che quando gli hai consegnato la VW tu gli abbia dato un nome falso.»

«E lui come faceva a sapere che era falso?»

«Oh Dio, Miles!» esclamò Orso Polare sospirando. Accese il motore e si allontanò dalla curva. All'angolo svoltò sulla Main Street, dopodiché proseguimmo lentamente, lasciandoci alle spalle, uno dopo l'altro, Zumgo's, i bar, la panetteria e la facciata di mattoni dei Laboratori Dairyland. «Devi sapere che tu sei un uomo famoso, Miles. Sei come un divo del cinema, devi aspettarti di venire riconosciuto per la strada.» Quando fummo all'altezza del palazzo di giustizia, anziché piegare in direzione del parcheggio della polizia, come io immaginavo, proseguì diritto, verso il ponte. In quella parte di Arden, i negozi sono assai rari e, superato il bowling, un paio di ristoranti e alcune case, si arriva rapidamente in aperta campagna.

«Non penso che sia un crimine farsi riparare la macchina dando un nome falso. Comunque, posso sapere dove stiamo andando adesso?»

«Soltanto a fare un giro per la contea, Miles. No, non è un crimine, hai ragione. Ma dal momento che tutti sanno chi sei non è stata una mossa molto furba. L'unico risultato che ottieni in questo modo è quello di far insospettire chi, come Hank, non è un'aquila. Ma soprattutto, Miles, si può sapere come diavolo ti è saltato in mente di usare proprio quel nome?» Accompagnò la parola diavolo con un pugno stizzoso sul volante. «Eh? Forza, rispondimi. Di tutti i nomi a cui potevi pensare, proprio Greening dovevi andare a scegliere? Certo, se hai deciso di rinfrescare a tutti la memoria su quel che è successo vent'anni fa, continua pure così. Io sto facendo di tutto per evitarlo. Non voglio che quella storia salti fuori di nuovo.»

«Io invece sono sicuro che è la prima cosa a cui la gente di Arden ha pensato vedendomi.»

Orso Polare scosse la testa disgustato. «D'accordo. Non parliamone più. Ho detto anche a Hank di metterci una pietra sopra. In ogni caso, lui è troppo giovane per conoscere tutta la vicenda.»

«E allora perché ti sei scaldato tanto?»

«Non preoccuparti dei miei problemi, Miles. Vediamo invece se riusciamo a venire a capo di qualcosa. Hai scoperto niente parlando con Paul Kant?»

«Non ha fatto niente e di sicuro non ha ucciso nessuno. È un uomo triste e spaventato. Non sarebbe mai capace di compiere un atto di barbarie paragonabile a quegli omicidi. Ha troppa paura per poter fare qualsiasi cosa che non sia andare al negozio dietro l'angolo per comperarsi da mangiare.»

«Te l'ha detto lui?»

«È così spaventato che non ha nemmeno seppellito il suo cane. Me ne sono accorto quando sono uscito. No, Paul Kant non potrebbe fare del male nemmeno a una mosca.»

Orso Polare si inclinò il cappello all'indietro e si piegò ancor di più sul volante. Era troppo corpulento per stare seduto comodo al posto di guida. Avevamo già percorso parecchie miglia e, oltre gli alberi, si vedevano le ampie anse del fiume Blundell. «È qui che i pescatori hanno trovato il corpo della Olson?»

Galen piegò la testa e mi fissò. «No, due miglia più in su. Ci siamo passati davanti cinque o sei minuti fa.»

«Di proposito?»

«Di proposito in che senso?»

Scrollai le spalle: lo sapevamo entrambi.

«Io penso che forse il nostro amico Paul non ti abbia detto tutta la verità» riprese Orso Polare. «Se fosse uscito per andare a fare la spesa avrebbe comprato anche il cibo per il cane, non ti pare?»

«Ma che cosa stai dicendo?»

«Ti ha offerto qualcosa mentre eri lì? Un sandwich o un caffè?»

«No, perché?» Poi capii. «Intendi dire che non esce mai di casa? E che il suo cane è morto di fame?»

«Be' forse è morto di fame o forse qualcuno lo ha aiutato a mettere fine alle sue pene, questo non lo so. Ma sta di fatto che Paul Kant non mette piede fuori di casa da circa una settimana. A meno che non esca di notte.»

«E che cosa mangia?»

«Pochissimo, presumo. A questo punto immagino che abbia la dispensa piena di scatolette. È per questo che non ti ha invitato a pranzo. Si è chiuso in se stesso come un'ostrica.»

«Ma come puoi ...»

Orso Polare alzò la mano destra. «Io non posso costringere uno ad uscire per comprarsi da mangiare. In ogni caso, finché non muore di fame, fa meglio a non farsi vedere in giro: così si tiene lontano da eventuali guai. Immagino che tu abbia notato che uno dei vigilantes del quartiere tiene d'occhio la sua casa.»

«E tu non puoi ordinargli di andarsene?»

«E perché dovrei farlo? Per me è un ottimo sistema per sapere che cos'hanno in mente certe teste calde. Comunque ci sono alcune cose che tu dovresti sapere di Paul e che dubito che lui ti abbia raccontato.»

«Penso che mi abbia detto tutto quello che aveva bisogno di dirmi.»

In corrispondenza di un incrocio, Orso Polare girò, prendendo una strada che, anche se in modo meno diretto, riconduceva ad Arden. Eravamo quasi arrivati alla cittadina di Blundell e non avevamo ancora incontrato anima viva. La radio della polizia gracchiava, ma Hovre non vi faceva caso. Procedeva con la stessa calma dell'andata, seguendo il corso del fiume che si dipanava nella valle. «Così, pensavo. Vedi, devi sapere che Paul ha dei problemi. Non il genere di cose di cui un uomo va fiero, tu mi capisci. E si è cacciato in qualche piccolo guaio. Tu sai che è vissuto per anni in quel posto scalcinato insieme alla madre. Ha perfino dovuto abbandonare gli studi per curarla e ha dovuto cercarsi subito un lavoro per pagare le parcelle del medico. Quando lei è morta, Paul è rimasto in città per un po'; presumo che si sentisse piuttosto smarrito. Poi, un bel giorno, ha fatto le valige ed è andato a stare a Minneapolis per una settimana. Il mese dopo, la cosa si è ripetuta, e con il tempo è diventata un'abitudine. L'ultima volta, però, ho ricevuto una telefonata da un sergente di polizia di Minneapolis che mi avvisava che l'avevano arrestato. Sembrava che lo stessero cercando già da qualche tempo.» Mi lanciò un'occhiata, pregustando il finale della storia. Non riuscì a trattenere un sorriso. «Avevano ricevuto diverse segnalazioni a proposito di un tizio che si aggirava intorno ai raduni dei Boy Scout: sai che d'estate si riuniscono nei cortili delle scuole, no? Non diceva mai niente, si limitava solo a guardare attraverso la recinzione. Poi quando qualche ragazzmo tornava a casa, lui gli andava dietro, sempre senza parlare. Li seguiva e basta. Dopo un po' di tempo, diciamo quattro o cinque di questi episodi, il padre di uno dei bambini si è rivolto alla polizia. Però, all'improvviso, il tizio scompare e la polizia non riesce a beccarlo. Fino a quando non ci ha provato in un parco pieno di bambini, di mamme e di poliziotti. Un giorno ci mancò poco che si facesse scoprire. Poi, alla fine, quando sono riusciti a fermarlo, lo hanno trovato con le mani sull'uccello. Era il loro uomo. Andava fino nel Minnesota per sfogare i suoi istinti, capisci? Poi ritornava qui fino a quando non sentiva il bisogno di farlo di nuovo. Naturalmente ha confessato, ma in realtà non aveva commesso nessun crimine. Comunque era spaventato a morte e si è fatto ricoverare spontaneamente in ospedale dove è rimasto sette mesi. Quando è uscito è ritornato ad Arden; non aveva nessun altro posto dove andare. Immagino che si sia dimenticato di raccontarti questo piccolo particolare della sua vita.»

Io mi limitai ad annuire. Dopo un po' mi venne in mente qualcosa da dire. «Devo fidarmi della tua parola, riguardo alla veridicità di questa storia.» Hovre ridacchiò soddisfatto. «Ma anche se quello che mi hai riferito è tutto vero, quello che Paul ha fatto, o piuttosto quello che non ha fatto, non ha niente a che vedere con la violenza carnale. Una persona non può essere colpevole di tutti e due i crimini.»

«Forse è così. Ma il punto è che nessuno qui ad Arden è disposto ad escluderlo, capisci? E poi ci sono alcuni dettagli, per quanto riguarda questi omicidi, di cui la gente non è a conoscenza. Insomma, qui non abbiamo a che fare con un semplice stupratore. Nemmeno con uno stupratore assassino. La persona che ha commesso questi omicidi è malata, Miles. Molto malata. Potrebbe trattarsi di un uomo impotente, ma potrebbe anche essere una donna. Oppure potrebbero agire in coppia, un uomo e una donna insieme, anche se io propendo per la tesi di un maniaco solo.»

«Ma che cosa stai dicendo?»

Eravamo arrivati alla periferia di Arden e Hovre si stava dirigendo verso la strada in cui avevo parcheggiato la Nash, come se sapesse alla perfezione dov'era.

«Io ho una mia teoria in proposito. Sono convinto che l'assassino desideri venire da me a parlarmi di quello che ha fatto. Immagino che il rimorso lo stia torturando e che senta un foltissimo bisogno di confidarsi con qualcuno. Non sei d'accordo?»

Non ne avevo la benché minima idea e glielo dissi.

«Ma pensaci. Malato com'è è probabile che sia un uomo solo. Forse non prova nemmeno piacere nel fare quello che ha fatto alle due ragazze. Ma sa che lo farà di nuovo.» Orso Polare mi guardò: sorrideva, sembrava sicuro di sé e pronto a dare una mano a chiunque avesse bisogno di aiuto. «Il nostro amico sa che io sono la persona più adatta a cui rivolgersi. Non mi sorprenderei se si trattasse di qualcuno che vedo di tanto in tanto, qualcuno che bazzica in zona, sempre pronto a scambiare quattro chiacchiere. Forse l'ho già visto due o tre volte solo questa settimana.»

Fermò la macchina ad uno stop: dalla parte opposta della strada, alcune centinaia di metri più giù, c'era la Nash. Io stesso non avrei saputo come ritrovarla. «Be', parlando di fortuna, quella non è la macchina che hai preso a nolo da Hank?»

«Sì. Anzi, già che siamo sull'argomento, che cosa mi dici di quei delinquenti che mi hanno distrutto il maggiolino?»

«Sto indagando, Miles. Sto indagando.» Attraversò la strada e si fermò accanto alla vecchia Nash.

«E puoi spiegarmi cosa intendevi dire poco fa a proposito dell'assassino? Il fatto che secondo te non sarebbe un semplice violentatore?»

«Certo. Perché non vieni a mangiare un boccone da me una di queste sere? Ti spiegherò ogni cosa.» Si protese davanti a me e mi aprì la portiera. «Non penso che la mia cucina ti ucciderà. Mi farò vivo, Miles. Tu, intanto, continua a tenere gli occhi aperti. E ricorda che puoi telefonarmi in qualsiasi momento.»

La sua voce, monocorde e suadente, mi riecheggiò nelle orecchie per tutto il tragitto fino a casa. Ero quasi ipnotizzato, come se qualcuno mi avesse privato della volontà. Continuai a sentirla anche quando, arrivato alla fattoria, cominciai a spostare i mobili del salotto. Avevo la sensazione di essere stato parzialmente "fagocitato" da Orso Polare e sapevo che finché non mi fossi liberato di lui non sarei mai riuscito a collocare i vari pezzi dell'arredamento al loro posto. Salii in camera mia e mi sedetti alla scrivania. Indugiai a scrutare le due fotografie fino a quando, a poco a poco, tutto il resto svanì e io rimasi solo con Alison. Vagamente, in lontananza, il telefono cominciò a squillare.

 

E la terza volta accadde così:

Il pomeriggio stava volgendo al termine. La ragazza uscì di casa, ma quando sentì l'aria umida e immobile del giorno che lentamente moriva, esitò, chiedendosi se non facesse troppo caldo per andare a giocare a bowling. Aveva la testa madida di sudore. Si accorse di aver lasciato gli occhiali da sole in camera, ma decise di non sprecare ulteriore energia per tornare indietro a prenderli. Si sentiva sciogliere per il caldo. Come se ciò non bastasse, la concentrazione di pollini nell'aria era aumentata, il che significava che sarebbe arrivata al Bowl-A-Rama starnutendo.

Forse avrebbe fatto meglio a restare a casa a leggere. Era piuttosto piccola per la sua età e l'espressione acuta e compita del suo visetto grazioso lasciava intuire il suo amore e la sua propensione alla lettura. Il suo sogno era quello di insegnare, di diventare insegnante di inglese. La ragazza si voltò a guardare il prato marrone che precedeva la casa e il sole rimbalzò contro i vetri delle finestre. Non c'era neppure un barlume d'ombra. Starnutì. La camicetta bianca le aderiva già completamente alla pelle.

Distolse gli occhi dal riverbero del sole e si avviò verso la città. Seguì la direzione in cui, due o tre ore prima, aveva visto dileguarsi l'auto del capo della polizia. Dopo la morte di Jenny Strand, alle ragazze di Arden non piaceva uscire da sole; ma finché c'era luce, si disse, non c'era pericolo e poi i suoi amici l'aspettavano davanti al bowling. Del resto, lei non confidava molto nella capacità di Galen Hovre, anzi era convinta che fosse troppo ottuso per scoprire l'assassino di Gwen Olson e Jenny Strand, a meno che non si trattasse dell'uomo grande e grosso che aveva visto seduto in macchina accanto allo sceriffo.

Si trascinò pigramente tenendo lo sguardo fisso sull'asfalto e dondolando le braccia magre. Riconobbe che il bowling non le piaceva e che ci giocava soltanto perché lo facevano tutti.

La ragazza non vide che cosa l'afferrò: ebbe soltanto la fugace percezione di una sagoma sbucata all'improvviso da un vicolo. Poi fu aggredita battuta contro il muro e il terrore accecante che si impadronì di lei le impedì di gridare. La forza con cui era stata sollevata non poteva essere umana e ciò che l'aveva afferrata e che adesso la schiacciava non assomigliava alla pelle di una creatura come lei. Tutt'intorno l'aria era impregnata dell'odore aspro della terra, come se lei fosse già nella sua tomba.

 

CAPITOLO SETTIMO

 

Non riuscivo a muovere né le braccia né le gambe. Eppure, sentivo che, in un'altra dimensione, le mie gambe si stavano muovendo: non giacevano inerti sul pavimento dello studio, ma mi stavano conducendo verso il bosco. Assistevo con imparzialità ad entrambi i processi, sia quello interno (il mio avanzare verso il bosco) sia quello esterno (l'essere disteso sul pavimento della stanza); l'unica altra volta in cui avevo vissuto un'esperienza di quel genere era stato quando avevo aperto il forziere e avevo visto la fotografia che poi lei aveva stabilito che venisse collocata sulla mia scrivania. L'aria era dolce, profumata, sia fuori che nella camera. Le luci si erano spente e i campi erano immersi nell'oscurità. Ad un certo punto - era trascorso un lasso di tempo incommensurabile, incalcolabile dal momento in cui mi ero affacciato alla finestra per vedere che cosa spaventasse tanto la giumenta - era calata la notte. Io stavo attraversando il campo buio diretto verso i platani: mi feci largo fra l'erba alta e fitta, salii sulla protuberanza erbosa delle radici e, con un agile balzo, raggiunsi la sponda opposta del ruscello. Il mio corpo era leggero, quasi inconsistente, come nei sogni. Non avevo bisogno di correre. Sentivo il telefono, le civette e i grilli. L'aria della notte era così vellutata e dolce che mi sembrava potesse restare impigliata fra i rami degli alberi come la nebbia.

Attraversai senza difficoltà la successiva distesa di campi ed entrai nel bosco di betulle luccicanti. Chi aveva spento le luci? Il mio indice destro mi restituiva la percezione di assi di legno levigate, ma in realtà stava sfiorando un acero spettrale. Lo oltrepassai e proseguii su un pacciame di foglie. La pendenza cominciò a cambiare. Alla mia destra, un cervo si lanciò nel cuore del bosco e io lo seguii. In salita. Attraverso l'intreccio sempre più fitto degli alberi, delle querce alte che trasfondevano vita, con cortecce che sembravano fiumi. Appoggiai le mani sul tronco di un vecchio acero morto che mi ostruiva il passaggio, come il cadavere di un soldato; mi ci sedetti sopra, issandomi sulle braccia, quindi, dopo aver portato le gambe dalla parte opposta, mi lasciai cadere: le mie ginocchia assorbirono l'impatto con il terreno elastico. Restava il problema della luce, ma io sapevo dove stavo andando.

Era una radura. Una radura di circa cinque metri di diametro, attorniata da querce gigantesche, che recava, al centro, le tracce scure di un fuoco spento. Lei era lì e mi stava aspettando.

Come per magia, io sapevo come arrivarci: dovevo solo lasciarmi condurre e i miei piedi mi avrebbero guidato lì.

Quando gli alberi si facevano troppo vicini io scostavo i rami con le braccia, anche se spesso mi si impigliavano nella giacca e fra i capelli ghermendomi, proprio come il groviglio di erbacce spinose che mi aveva catturato il piede davanti alla Casa dei Sogni di Duane. Le foglie stormivano nell'aria densamente profumata. I miei piedi lasciavano nel terreno buchi neri e vischiosi. I tronchi degli alberi erano ricoperti di funghi lucenti, bianchi e rossi. Io camminavo a fatica in mezzo a felci che mi arrivavano alla vita, tenendo le braccia come se stessi imbracciando un fucile.

Vi fu un oscuramento dello spirito. Quando fui prossimo alla meta, vidi il riflesso del chiarore stellare sulle cortecce degli alberi, che sembravano solcate da ruscelli argentati, e cominciai ad avere paura. Oltrepassai una gola ed ebbi la sensazione che volesse inghiottirmi. La vita pulsante della foresta esprimeva una forza incommensurabile; anche l'aria sembrava tesa. Mi arrampicai sul tronco di un albero abbattuto da un fulmine. Cose vive si attorcigliavano intorno ai miei stivali, sui quali proliferavano radici dorate. Calpestai un fungo grande come la testa di una pecora e lo sentii sciogliersi come gelatina sotto il peso del mio corpo.

La mano ruvida di un albero mi sfiorò il viso. Sentii la pelle tendersi sopra la mandibola e creparsi come una tazzina di porcellana. I rami si richiusero sopra la mia testa. La sola luce che mi guidava era quella delle foglie e delle felci, la luce che le piante producono come l'ossigeno. Con uno schiocco, un altro ramo riguadagnò il proprio posto alle mie spalle, chiudendomi il passaggio. Caddi in ginocchio. Strisciando sul terreno umido e soffice della foresta, arrancai sotto il ramo più basso dell'albero che faceva da sentinella. Le mie dita toccarono l'erba e i sassi. Mi trascinai nella radura.

Quando mi rialzai, avevo la camicia cosparsa di muschio e la benda che mi proteggeva la mano sinistra se ne era andata. Mi rendevo conto di avere i capelli pieni di foglie secche e di ramoscelli e benché sentissi un forte desiderio di liberarmene, le mie mani non si muovevano, le mie braccia non si alzavano.

Dietro di me, gli alberi premevano e bisbigliavano. L'oscurità era orlata e trafitta da migliaia di luci aguzze e argentate che disegnavano i contorni delle foglie e le curve dei viticci. La radura era un circolo scuro con, al centro, un circolo ancora più scuro. Riuscivo a muovermi e avanzai. Toccai le ceneri: erano calde. Respirai l'odore di legna bruciata: era intenso e dolce. Un'atmosfera di grande tensione pervase la foresta che infittiva oltre la radura. Davanti alle ceneri calde io rabbrividii e mi inginocchiai in assoluto silenzio.

Che cosa accadrà quando lei ritornerà? mi aveva chiesto Rinn, e un terrore abissale, più grande di quello che mi aveva assalito la prima volta che mi ero inoltrato nel bosco, si impadronì di me. Un rumore simile ad un sibilo, acuto e frusciante al tempo stesso, mi raggiunse dal punto in cui la luce delle foglie era più intensa. Un velo ghiacciato mi coprì la pelle. Quel rumore si stava trascinando verso di me.

Poi la vidi.

Era in piedi dalla parte opposta della radura, nella cornice descritta da due betulle nere. Non era cambiata. Se qualcosa avesse sfiorato il mio sottile strato di pelle gelida, io mi sarei frantumato in migliaia di frammenti bianchi e ghiacciati. Cominciò ad avanzare verso di me, con passo lento, ma continuo.

Io la chiamai per nome.

Man mano che lei si avvicinava, il rumore aumentava: quel suono acuto e confuso mi graffiava le orecchie. Aveva la bocca aperta: i suoi denti erano pietre levigate dall'acqua, il suo viso un arabesco di foglie, le sue mani legno screziato punteggiato di spine. Lei era fatta di corteccia e di foglie.

Allungai le mani all'indietro e i miei polpastrelli incontrarono una superficie di legno liscio. Mi sembrava di avere i polmoni pieni di acqua. Mi accorsi che stavo urlando soltanto quando udii la mia voce.

 

«Ha gli occhi aperti» disse qualcuno. Io stavo fissando la finestra aperta sopra la mia scrivania: una brezza calda gonfiava le tende e sollevava alcuni fogli di carta. Era giorno. L'aria aveva la consistenza di sempre e non era profumata. «Ha gli occhi spalancati.»

«Sei sveglio Miles? Riesci a sentirmi?» mi domandò un'altra persona.

Cercai di parlare, ma dalla mia bocca uscì solo un fiotto di liquido acido.

La donna disse: «Grazie a te, vivrà.»